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Provvedimento: Cass., Sez. IV civ. - Lavoro, ordinanza 15 luglio 2025, n. 19556
Caso: Licenziamento per g.m.o. – Riorganizzazione aziendale – Soppressione del posto - Obbligo di repêchage – Mutamento dell’inquadramento e della retribuzione – Rifiuto della proposta - Effetti sulla contestazione del successivo licenziamento.
Riferimenti normativi:Art. 2103 Cod. civ. – Prestazione del lavoro.
In caso di soppressione del posto, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha l’obbligo di ricercare soluzioni alternative idonee al mantenimento del rapporto, anche mediante la proposta di ricollocazione in mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore è già in possesso e che non necessitano di una specifica formazione.
Il rifiuto della proposta da parte del lavoratore rende legittimo il recesso, a condizione che il datore dimostri l’impossibilità di altre collocazioni.
È quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza n. 19556/2025 della Corte di cassazione (Sez. VI civ. – L).
Il giudizio scaturisce dell’impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ebbene, la vicenda è approdata in Cassazione dopo che la Corte d’Appello di Roma ha riformato la decisione di primo grado e respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo fornita la prova dell’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in mansioni dello stesso livello.
Questi – in sintesi - i due motivi di ricorso formulati dal lavoratore:
La Cassazione ha rigettato il ricorso.
Vediamo perché.
Il ricorrente si è dichiarato disponibile solo a «valutare ruoli di pari livello e pari retribuzione», il che – ha spiegato la Suprema Corte – si è tradotto in un rifiuto della soluzione alternativa offerta dal datore che legittima il recesso dal rapporto di lavoro.
Per il Supremo Collegio, quando sussistono soppressioni di posti per ragioni organizzative, il datore è tenuto a cercare soluzioni alternative (repêchage) e può offrire mansioni anche inferiori con relativo trattamento retributivo.
Infatti, in ragione della logica del “male minore”, è possibile sacrificare sia la professionalità acquisita, sia la retribuzione in godimento, ferma restando la scelta del lavoratore di non aderire alla proposta, ma in tal caso il licenziamento non può che ritenersi legittimo.
Inoltre, negli anni, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’onere di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il dipendente grava sul datore di lavoro, e tale prova può anche desumersi dal fatto che, nelle fasi concomitanti e successive al licenziamento, non sono state effettuate nuove assunzioni o che queste riguardano profili non compatibili con la professionalità del lavoratore.
Alla luce di tali criteri, in conclusione, nello specifico caso, il rifiuto del dipendente rispetto alla proposta di mansioni inferiori ha legittimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nel dettaglio, la decisione della Suprema Corte è stata motivata come segue.
2. il ricorso non merita accoglimento;
2.1. il primo motivo è infondato, in quanto la sentenza impugnata è conforme a consolidato e condiviso orientamento di questa Corte Suprema;
2.1.1. sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 è stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto;
il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (a partire da Cass. n. 21579 del 2008; in conformità: Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019);
l’orientamento ha ricevuto l’avallo indiretto della Corte costituzionale (sent. n. 188 del 2020) che, nel ritenere non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 37, comma 1, n. 5), dell'Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, laddove prevede la possibilità di applicare la retrocessione quale sanzione disciplinare “sostitutiva” della destituzione, ha considerato proprio la richiamata giurisprudenza di legittimità, affermando che, in ossequio alla logica del «male minore», “la tutela della professionalità del lavoratore cede di fronte all'esigenza di salvaguardia di un bene più prezioso, quale il piuttosto l’art. 2103 c.c. novellato - che al comma 2 stabilisce che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”, così consentendo l’assegnazione a mansioni inferiori anche a prescindere dal consenso del lavoratore – non esclude certo che tra le modifiche organizzative di cui alla disposizione si collochi anche la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento (in termini v. Cass. n. 31561 del 2023);
tuttavia, l’ambito di operatività delle due fattispecie (quella della scelta datoriale di attribuzione di mansioni inferiori a seguito di in analoga prospettiva questa Corte ha avuto già modo di affermare che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo datoriale di repêchage, anche ai sensi del novellato art. 2103, comma 2, c.c., è limitato alla ricollocazione in mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento e che non necessitano di una specifica formazione (v. Cass. n. 17036 del 2024 e Cass. n. 10627 del 2024);
2.1.3. alla stregua delle esposte argomentazioni, non ha pregio la pretesa del ricorrente che si è dichiarato disponibile solo a “valutare ruoli di pari livello e pari retribuzione”, traducendosi ciò in un rifiuto della soluzione alternativa offerta dal datore che legittima il recesso dal rapporto di lavoro.
2.2. il secondo motivo è inammissibile;
si denuncia il vizio di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ben oltre i limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, piuttosto lamentando difetti di “pertinente motivazione”, come noto non più sindacabili alla luce del rinnovato quadro processuale concernente i vizi prospettabili innanzi al giudice di legittimità;
peraltro, non corrisponde al vero che “la mancanza di nuove assunzioni dopo il licenziamento è circostanza irrilevante” ai fini della prova del repêchage, come invece opina parte ricorrente;
secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016); trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l'onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (cfr. Cass n. 10435 del 2018); usualmente si prova – appunto - che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v. Cass. n. 6497 del 2021, con la giurisprudenza ivi citata al punto 6);
3. pertanto il ricorso deve essere respinto nel suo complesso;
le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; […]
Prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto alla soppressione del posto, il datore è obbligato a proporre al lavoratore mansioni alternative (anche inferiori) prima di recedere?
Sì. Il datore deve cercare eventuali collocazioni alternative (obbligo di repêchage); se le mansioni alternative sono compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore e non richiedono specifica formazione, la loro offerta (anche con dequalificazione/retribuzione inferiore) legittima il recesso se il lavoratore rifiuta.
Chi ha l’onere di provare l’impossibilità di ricollocare (repêchage) il lavoratore nell’azienda, quando il datore invoca il giustificato motivo oggettivo?
Spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage; può fornire prova anche indiziaria (es. l’assenza di nuove assunzioni nel periodo successivo o assunzioni per mansioni non compatibili).
L’art. 2103 c.c. (n. 2, testo novellato) esclude la possibilità, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di proporre mansioni inferiori al lavoratore?
No. Il novellato art. 2103 comma 2 disciplina l’assegnazione a mansioni inferiori nell’ambito di modifiche organizzative e non esclude che, in caso di soppressione del posto per giustificato motivo oggettivo, il datore possa proporre il repêchage con mansioni inferiori; tuttavia, nel contesto del G.M.O. la ricollocazione è limitata a mansioni compatibili con le competenze attuali del lavoratore. Se il lavoratore rifiuta, il licenziamento può risultare legittimo.
Il sig. Bianchi è Direttore Commerciale di un Hotel.
Per ragioni organizzative e di ristrutturazione, la società decide di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Prima di intimare il licenziamento, la società propone a Bianchi una ricollocazione come Responsabile Prenotazioni, inquadramento e retribuzione corrispondente al 1° livello impiegatizio (quindi dequalificazione rispetto alla posizione di quadro).
Bianchi respinge la proposta lo stesso giorno con PEC, sostenendo che la dequalificazione e la riduzione salariale non sono compatibili con la sua figura professionale e che è disponibile ad accettare solo ruoli di pari livello e pari retribuzione.
La società procede al licenziamento. Nei 12 mesi successivi non assume nuovo personale per mansioni equivalenti a quelle svolte da Bianchi.
Bianchi impugna il licenziamento, ma i primi due gradi di giudizio si chiudono con sentenza di rigetto della domanda, sul presupposto che l’azienda abbia adempiuto all’obbligo di repêchage e che, quindi, il rifiuto del lavoratore abbia legittimato il licenziamento.
Il caso arriva in Cassazione, la quale conferma che la proposta di repêchage può includere una dequalificazione e riduzione retributiva in ossequio alla logica del “male minore” (salvaguardia dell’occupazione rispetto alla conservazione della professionalità). La mancata accettazione da parte del lavoratore può legittimare il licenziamento, purché il datore abbia assolto l’onere probatorio sull’impossibilità di altra ricollocazione.
(prezzi IVA esclusa)