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Come si è avuto modo di approfondire nei recenti contribuiti editoriali a cura della scrivente, il 2025 è stato un periodo di particolare fermento nella giurisprudenza giuslavorista della Suprema Corte, che, attraverso recenti statuizioni, sta operando una sistemazione critica di istituti classici, con ricadute immediate sulla gestione del personale e sulla contrattualistica. Le Sentenze qui in esame non sono mere applicazioni del diritto ma veri e propri interventi che rafforzano il livello di tutela del contraente debole. La Cass. n. 26035/2025 sull'obbligo di repechage eleva a principio indefettibile l'onere datoriale di provare l'impossibilità di ricollocazione, rafforzando la stabilità reale del rapporto oltre le mansioni specifiche; simmetricamente, la Cass. n. 31181/2025 sulla gravidanza consolida l'intangibilità di tale periodo di tutela come diritto erga omnes, ribadendo la nullità di qualsiasi recesso che non rientri nelle ipotesi eccezionali e preservando la funzione sociale della maternità. Infine, la Cass. n. 13525/2025 sul TFR in busta paga sottolinea la funzione previdenziale dell'istituto, arginando tentativi di snaturamento che ne comprometterebbero la disciplina unitaria e l'effettiva utilità per il lavoratore. Queste decisioni vanno a corroborare un nuovo standard di correttezza e buona fede nei rapporti di lavoro, imponendo alla platea dei professionisti un aggiornamento ermeneutico che tenga conto di questi nuovi capisaldi del diritto vivente.
La Sentenza Cass. n. 13525 del 20.05.2025 pome un argine a quel complesso di prassi aziendali volte a snaturare la funzione essenziale del Trattamento di Fine Rapporto, ribadendone in modo perentorio la natura di retribuzione differita a finalità previdenziale e di sostegno al reddito post-lavorativo, in netto contrasto con l'ipotesi di erogazione frazionata e mensilizzata direttamente in busta paga.
La Corte ha statuito l'illegittimità di tale modalità di liquidazione anticipata e periodica, anche qualora formalmente accettata dal lavoratore, in quanto elusiva del disposto dell' art. 2120 c.c. e della sua ratio protettiva.
L’ art.2120 cod.civ., agli ultimi commi, statuisce che “ Il prestatore di lavoro, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, può chiedere, in costanza di rapporto di lavoro, una anticipazione non superiore al 70 per cento sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. Le richieste sono soddisfatte annualmente entro i limiti del 10 per cento degli aventi titolo, di cui al precedente comma, e comunque del 4 per cento del numero totale dei dipendenti. La richiesta deve essere giustificata dalla necessità di: a) eventuali spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; b) acquisto della prima casa di abitazione per se' o per i figli, documentato con atto notarile. L'anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro e viene detratta, a tutti gli effetti, dal trattamento di fine rapporto”. Il passaggio dell'art. 2120 cod.civ. delinea un sofisticato equilibrio tra la natura di retribuzione differita del T.F.R. e la sua funzione di ammortizzatore sociale e previdenziale in costanza di rapporto. Sotto il profilo strettamente civilistico, la norma configura in capo al lavoratore un diritto potestativo ad esercizio differito, la cui attivazione è subordinata a rigorosi presupposti di anzianità e a specifiche causali che riflettono interessi costituzionalmente protetti, quali il diritto alla salute e la tutela del risparmio finalizzato all'abitazione. L'imposizione del limite temporale degli otto anni di servizio e del tetto massimo del 70% della somma accantonata risponde alla bisogno di preservare l'integrità del fondo per la sua destinazione naturale alla cessazione del rapporto, evitando che una eccessiva erosione del montante ne vanifichi la funzione di sostegno post-lavorativo. Parallelamente, la determinazione di contingenti annui basati su percentuali fisse, ovvero il 10% degli aventi titolo e il 4% della forza lavoro totale, evidenzia la preoccupazione del legislatore per la stabilità finanziaria dell'impresa. Il vincolo di unicità dell'anticipazione e il meccanismo di detrazione definitiva dal saldo finale sanciscono infine il principio di consunzione del credito, trasformando l'anticipazione non in un mero finanziamento rimborsabile, bensì in una parziale estinzione anticipata dell'obbligazione principale, che sottrae le somme erogate alla futura rivalutazione monetaria. In buona sostanza, la norma trasforma il credito da TFR in uno strumento di welfare contrattualizzato, ove la rigidità della disciplina legale funge da garanzia contro l'uso improprio di somme destinate a bisogni primari, lasciando però alla contrattazione collettiva lo spazio per un'espansione dei diritti in senso migliorativo.
Il fulcro della motivazione risiede nel carattere non solo economico-retributivo del TFR ma soprattutto nella sua funzione della sentenza in rassegna e previdenziale latu sensu, destinata a costituire una riserva di liquidità utile al lavoratore al momento della cessazione del rapporto, per affrontare l'eventuale transizione occupazionale o integrare il reddito pensionistico. Una liquidazione mensile priverebbe il TFR di questa sua peculiare funzione di accantonamento coatto, trasformandolo de facto in un mero supplemento retributivo soggetto al regime ordinario di immediata disponibilità e consumo, contravvenendo così all'esigenza tutelata dall'ordinamento di garantire al lavoratore una forma di risparmio forzoso gestito in modo unitario e capitalizzato nel tempo: “L’anticipazione del t.f.r. operata in modo continuativo mediante accredito mensile nella busta paga viene a snaturare la funzione dell’anticipazione quale deroga, per ragioni eccezionali da soddisfare una tantum, alla regola generale per cui il t.f.r. deve essere accantonato mensilmente. L’anticipazione mensile, peraltro senza causale, contrasta irrimediabilmente con l’accantonamento mensile del t.f.r., e fa sì che l’anticipazione non sia più una deroga eccezionalmente prevista alla regola di accantonamento mensile, ma si ponga quale sistema pattizio capace di contrastare, e svuotare, il meccanismo di funzionamento legale del t.f.r”.
La prassi censurata, oltre a compromettere la finalità del TFR, solleva complesse questioni di disciplina fiscale e contributiva, poiché la liquidazione del TFR è assoggettata a un regime di tassazione separata, strutturalmente diverso e più favorevole rispetto alla tassazione ordinaria Irpef applicabile ai redditi da lavoro dipendente percepiti mensilmente; l'erogazione mensile esporrebbe la componente TFR al regime Irpef ordinario, realizzando un pregiudizio economico per il lavoratore e un'alterazione delle finalità fiscali della normativa, elementi che la Cassazione ha ritenuto inaccettabili in quanto potenzialmente lesivi della posizione del dipendente e dell'interesse pubblico alla corretta gestione dell'istituto.
La Suprema Corte rafforza dunque il principio di indisponibilità pattizia della disciplina legale del TFR, sancendo che la volontà individuale delle parti non può prevalere sulla norma imperativa che ne definisce le modalità, la tempistica e la funzione ed inquadra la pronuncia in rassegna come un pilastro interpretativo che ripristina la strutturale unitarietà del TFR e la sua funzione di ammortizzatore sociale differito. Pertanto le condizioni di maggior favore che il patto individuale del contratto di lavoro può introdurre al regime legale di anticipazione del T.F.R. non possono concretarsi in una anticipazione mensile di tale emolumento a fronte dell’assenza di alcuna specifica causale. Come chiarito dalla sentenza: “Lo schema legale dell’anticipazione del t.f.r. è improntato su alcuni presupposti: a) necessità di causali tipiche per l’anticipazione; b) regola dell’una tantum, per cui l’anticipazione è possibile una sola volta; c) importo massimo di anticipazione (70%); d) tetto minimo di anzianità lavorativa (8 anni di servizio) del lavoratore; e) tetto massimo di richieste che il datore può accordare (10% degli aventi diritto ogni anno; 4% del totale dei dipendenti). Ora, le condizioni di maggior favore cui si riferisce l’ultimo comma dell’art.2120 c.c. devono intendersi volte ad ampliare i limiti fissati dai commi precedenti ai presupposti dell’anticipazione, non anche a snaturare il meccanismo dell’anticipazione e, correlativamente, del t.f.r”.
La Sentenza Cass. n. 31181 del 28.11.2025 si erge a baluardo della tutela della genitorialità e della non discriminazione, confermando e rafforzando la portata precettiva dell' art. 54 del D.Lgs. n. 151/2001. La pronuncia in oggetto ha escluso qualsiasi possibilità di interpretazione restrittiva del divieto di licenziamento della lavoratrice madre, estendendo la sua operatività in modo quasi assoluto, dalla comunicazione dello stato di gravidanza fino al compimento del primo anno di vita del bambino, salvo le ipotesi tassative ed eccezionali previste dalla stessa norma.
L’ art. 54, co. 3, del D.Lgs. n. 151/2013 statuisce che “Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) di cessazione dell'attivita' dell'azienda cui essa e' addetta; c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice e' stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all'articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni”. La norma in esame delinea i confini della tutela reale rafforzata prevista per la lavoratrice madre, configurando un regime di eccezioni tipizzate che devono essere interpretate restrittivamente alla luce della ratio costituzionale di protezione della maternità e dell'infanzia ex art. 31 Cost.
Il sistema normativo pone un divieto di licenziamento a carattere oggettivo, che opera indipendentemente dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro, rendendo le deroghe elencate dei veri e propri presupposti di legittimità di natura eccezionale. La deroga per colpa grave, costituente giusta causa, non si esaurisce nella mera sussistenza di un inadempimento contrattuale ma richiede una condotta di tale gravità, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, da recidere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Per quanto concerne la cessazione dell'attività aziendale, la giurisprudenza ha precisato che essa deve essere totale ed effettiva, non essendo sufficiente la chiusura di un singolo reparto o ramo d'azienda. Le ipotesi relative all'ultimazione della prestazione o alla scadenza del termine riflettono la fisiologica estinzione di un rapporto a tempo determinato, ove il venir meno del legame negoziale non è riconducibile a una libera determinazione unilaterale del datore, bensì alla predeterminazione originaria della durata, purché tale pattuizione sia esente da intenti fraudolenti o discriminatori. Infine, l'esito negativo della prova rappresenta la deroga più problematica, poiché deve confrontarsi con il divieto di discriminazione richiamato in chiusura del comma: affinché il recesso sia legittimo, il datore di lavoro deve dimostrare che la valutazione negativa riguardi esclusivamente le attitudini professionali della lavoratrice e non sia stata influenzata, neppure in via mediata, dallo stato di gravidanza, pena la nullità del licenziamento per violazione di norme imperative. Il richiamo espresso alla normativa antidiscriminatoria funge quindi da clausola di chiusura del sistema, garantendo che le eccezioni legali non si trasformino in varchi per condotte espulsive motivate dal genere o dalla condizione biologica, mantenendo la centralità del principio di uguaglianza sostanziale nel diritto del lavoro.
Alla luce di tali argomentazioni, la sentenza in rassegna sancisce, in merito alla nullità del licenziamento, che “La statuizione di nullità è stata fondata sulla violazione del divieto di licenziamento ex art. 54 d. lgs. n. n. 151/2001 per essere il recesso datoriale intervenuto durante lo stato di gravidanza della N.T., non avendo la società datrice, sulla quale ricadeva il relativo onere, dimostrato il ricorrere di una delle – tassative - ipotesi di deroga a tale divieto”.
Il principio di nullità radicale del licenziamento intimato al di fuori delle suindicate casistiche è stato ribadito con fermezza, inquadrandolo come presidio diretto dei diritti inviolabili della persona e principio di ordine pubblico economico e sociale. La Corte ha focalizzato l'attenzione sulla natura oggettiva e automatica della tutela: l'efficacia del divieto opera ex se per il solo fatto della gravidanza e della successiva maternità, rendendo irrilevante la conoscenza dello stato di gestazione da parte del datore di lavoro al momento dell'intimazione del recesso, purché tale stato sussista oggettivamente; sul punto, infatti, la sentenza chiarisce che “secondo la giurisprudenza di questa Corte l'art. 14 del d.P.R. 25 novembre 1976 n. 1026, pur prescrivendo determinate formalità quanto alla redazione ed alla produzione del certificato di gravidanza, non collega alcuna sanzione all'inosservanza di tali requisiti formali, sicché la lavoratrice (illegittimamente licenziata) può presentare tale certificato anche in allegato al ricorso con il quale impugna il licenziamento (Cass. 5749/2008)”. Tale approccio ermeneutico mira a sventare qualsiasi tentativo di mascherare un licenziamento discriminatorio o pretestuoso con motivazioni formali, in quanto la tutela non si basa sulla prova della discriminazione intenzionale ma sulla mera sussistenza del rapporto causale temporale con lo stato protetto.
Per quanto concerne il piano sanzionatorio, la violazione in rassegna implica la nullità assoluta e il conseguente obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, indipendentemente dal quantum occupazionale dell'azienda. Sul tema, la sentenza inoltre precisa: “in caso di applicazione della tutela reale ex art 18 l. n. 300/1970, (anche) nel testo modificato dalla l. n. 92 del 2012 - applicabile ratione temporis - il datore di lavoro è condannato al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, costituendo detta fattispecie una ipotesi eccezionale di condanna a favore del terzo, che non richiede la partecipazione al giudizio dell'ente previdenziale (Cass. n. 6722/2021,Cass. n. 8956/2020, Cass. nn. 19398/ 2014)”. Il passaggio riportato analizza il profilo dell'obbligazione contributiva accessoria all'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro; sul punto, la Corte qualifica il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali come una fattispecie eccezionale di condanna a favore del terzo, derogando al principio della necessaria partecipazione del creditore al processo, in tal caso l’INPS. Tale statuizione conferma che, in caso di nullità del licenziamento, si verifica contestualmente l'insorgenza di un'obbligazione ex lege in capo al datore di lavoro e che non richiede l'intervento in giudizio dell'ente previdenziale, poiché il diritto di quest’ultimo alla contribuzione sorge automaticamente come riflesso della ricostituzione giuridica del rapporto di lavoro sin dal momento dell'estromissione illegittima. Questo meccanismo garantisce una maggiore effettività della tutela per la lavoratrice madre, assicurando che la rimozione del licenziamento nullo sia totale e contestualmente non lasci scoperti previdenziali nel periodo di interruzione forzata dell'attività lavorativa, preservando così l'anzianità contributiva necessaria per le prestazioni di maternità e pensionistiche.
La Sentenza Cass. n. 26035 del 24.09.2025 si configura come l'affermazione di un paradigma teleologico del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), il cui coefficiente di legittimità causale viene intrinsecamente vincolato all'assolvimento dell'obbligo di repechage.
La Suprema Corte ha elevato il repechage da mero presupposto fattuale della validità del recesso a vera e propria condicio iuris per la sussistenza stessa del GMO. Il nucleo dogmatico della pronuncia risiede nell'esame dell'onere probatorio datoriale: l'imprenditore, nell'esercizio del suo potere organizzativo ex art. 41 Cost., non può limitarsi ad allegare la soppressione della posizione lavorativa, ma è tenuto a fornire una dimostrazione rigorosa dell'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, sia equivalenti ed anche inferiori, purché commisurate alla professionalità acquisita dal dipendente e non comportanti mutamenti dell’assetto organizzativo aziendale: “Con riguardo, poi, alle problematiche del repêchage in relazione alla mobilità verticale (mansioni inferiori) va rilevato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente, sia con riferimento alla precedente versione dell’art. 2103 cod. civ. che alla nuova, l’obbligo di repêchage nelle mansioni del livello immediatamente inferiore, purché siano compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore e non comportino mutamenti dell’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore ai sensi dell’art. 41 Cost. (Cass. n. 13379; Cass. n. n. 22798/2016; Cass. n. 4509/2016)”; sempre la Corte prosegue chiarendo ulteriormente che “è stato precisato che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a seguito della soppressione del posto di lavoro, ai fini dell’obbligo del repêchage, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 31520/2019; Cass. n. 17036/2024)”. La pronuncia in rassegna si pone dunque in linea con l'orientamento di tutela della massima conservazione del rapporto e richiede al datore di lavoro una gestione predittiva e preventiva delle eccedenze, ponendo a carico dello stesso un rischio di impresa che include la necessità di ponderare, prima del recesso, ogni soluzione alternativa di ricollocazione interna.
Il concetto di repêchage, dal francese “ripescaggio”, consiste nell'obbligo, gravante sul datore di lavoro che intenda intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di verificare l'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale prima di procedere alla risoluzione del rapporto. Quest’obbligo, pur essendo un pilastro del diritto del lavoro vivente, si caratterizza per l'assenza di una definizione normativa testuale ed esplicita, configurandosi come una creazione giurisprudenziale di natura interpretativa e integrativa.
Tale istituto configura il licenziamento come extrema ratio, ovvero come una soluzione residuale ed evitabile solo qualora non sussistano posizioni lavorative alternative compatibili con il bagaglio professionale del dipendente mansioni inferiori appartenenti alla medesima categoria legale. Sotto il profilo del riparto probatorio, il datore di lavoro non può limitarsi a dimostrare la soppressione del posto di lavoro, ma deve fornire la prova positiva della concreta inesistenza di altre posizioni vacanti, oppure che il lavoratore non possieda le competenze necessarie per occuparle, o ancora che la ricollocazione comporti una modifica irragionevole dell'assetto organizzativo aziendale. La giurisprudenza più recente ha inoltre chiarito che l'onere del repêchage deve essere assolto con riferimento all'intera compagine aziendale, includendo eventualmente anche altre sedi o rami d'azienda, purché sussista un coordinamento tecnico-organizzativo che ne permetta lo spostamento senza oneri eccessivi. La violazione di tale obbligo non attiene meramente ad un vizio di forma ma incide sulla sussistenza stessa della causa giustificatrice del recesso, determinando l'illegittimità del licenziamento e l'attivazione delle tutele risarcitorie o reintegratorie previste dall'ordinamento.
Dal punto di vista sanzionatorio, la sentenza chiarisce infine che: “In tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 St. lav. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012), la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato – dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento -, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale (Cass. n. 15066/2015; Cass. n. 6744/2022)”. Con questo passaggio, la Corte afferma che il risarcimento del danno derivante da licenziamento illegittimo deve rispondere al principio della restitutio in integrum, imponendo una proiezione ipotetica della situazione patrimoniale che si sarebbe determinata in assenza dell'atto nullo; l'inclusione di ogni compenso avente carattere continuativo sottolinea l’importanza della retribuzione effettiva e sanziona il datore di lavoro non solo per la perdita dello stipendio base ma anche per la privazione di tutte quelle utilità che, pur essendo accessorie, costituivano parte integrante e prevedibile del reddito del lavoratore. Contestualmente, la distinzione tra elementi fissi e compensi eventuali o occasionali introduce un correttivo di ragionevolezza in quanto esclude dal computo risarcitorio quelle voci legate a contingenze del tutto aleatorie o eccezionali ed evita così che il risarcimento si trasformi in un ingiusto arricchimento del danneggiato. In sintesi, la Corte riafferma che la stabilità dell'occupazione e la certezza del reddito sono beni giuridici protetti e la quantificazione del risarcimento diventa lo strumento per sterilizzare gli effetti di una gestione datoriale non conforme ai principi di proporzionalità e necessità.
La Dott.ssa Rossi, assunta a tempo indeterminato come Marketing Specialist presso l'azienda Beta S.p.A., comunica nel marzo 2025 il suo stato di gravidanza. Contestualmente, l'azienda sta attraversando una fase di riorganizzazione interna per razionalizzare i costi.
A maggio 2025, Beta S.p.A. decide di sopprimere la posizione della Dott.ssa Rossi, inviandole una comunicazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), adducendo l'esternalizzazione dell'intera funzione Marketing. Il licenziamento viene intimato adducendo anche la crisi finanziaria, pur avendo l'azienda precedentemente erogato a tutti i dipendenti, per il periodo 2024, il TFR frazionato mensilmente come componente aggiuntiva della busta paga, su base volontaria.
L'Applicazione delle Sentenze Cassazione 2025:
È possibile pagare il TFR poco alla volta, ogni mese, insieme allo stipendio?
No, è illegittimo. Il TFR deve essere accantonato e pagato solo alla fine del rapporto: pagandolo ogni mese, perde la sua funzione di riserva protetta e non può beneficiare del regime fiscale agevolato.
Se l'azienda chiude un reparto, può licenziare una dipendente in gravidanza?
No, non può. Il licenziamento della lavoratrice madre è nullo e la tutela è assoluta e prevale sul motivo oggettivo, a meno che l'azienda non cessi completamente l'attività o in casi di colpa grave della lavoratrice.
Per licenziare un dipendente per crisi aziendale, l'azienda deve provare di non poterlo proprio salvare?
Sì, deve provarlo. L'azienda ha l'obbligo di repechage, ovvero dimostrare di aver cercato ogni altra posizione disponibile o ricollocabile in azienda per il lavoratore, anche con mansioni diverse, prima di procedere al licenziamento.
(prezzi IVA esclusa)