15 maggio 2021

Storia di Omar

Autore: Ester Annetta

Il suo posto è sul muretto con l’inferriata che circonda il supermercato, poco prima del passaggio d’ingresso e dello spazio dove sono infilati i carrelli.

È una posizione ottimale, perché lungo quel marciapiede transitano in tanti: sia quelli che tirano dritto, verso il vicino ufficio postale o il negozio di casalinghi, sia chi invece entra a far la spesa, così che tutti debbano necessariamente passargli davanti. E a tutti, con una voce che è appena un sussurro, rivolge la stessa garbata richiesta: “Avrebbe una moneta da darmi per favore?”

È già da qualche mese che quell’uomo dall’aspetto trascurato, con indosso abiti che ricordano un tempo migliore, sosta in quella postazione durante tutto il giorno. Non è di quelli che danno una mano alle casse ad infilare la spesa nei sacchetti o che si offrono di spingere il carrello fino all’auto in cambio della moneta inserita nel bussolotto con la catenella. Non può farlo. Si capisce già nel vedere quel bastone consumato appoggiato al muretto accanto a lui; se ne ha la conferma nell’osservarlo alzarsi a fatica da quello scomodo sedile, reggersi malfermo su due gambe sottili, flesse, come se a dargli equilibrio fosse necessaria quella strana postura a metà tra l’eretto ed il seduto, e camminare dondolandosi, in un continuo bilanciare il peso da un piede all’altro.

Oggi non vado di fretta; è un tiepido pomeriggio di primavera e mi va di bighellonare per le strade del quartiere senza l’urgenza di incombenti da sbrigare.

Lo vedo da lontano e da quella distanza mi fermo a rovistare nella mia borsa alla ricerca di qualche moneta: lo ritengo più rispettoso che farlo davanti a lui. Trovo due euro, la sola traccia di contante nel mio portafogli, che ospita perlopiù ricevute di bancomat o di carta di credito.

Offro la moneta prima ancora che abbia il tempo di formulare la consueta richiesta e, quasi spiazzato, mi ringrazia sorridendo. Non so se l’ho decido in quel momento o ne avessi già l’intenzione, ma di getto gli chiedo: “Come ti chiami?”
Con un lieve gesto della mano abbassa la mascherina, giusto il tempo di scoprire la bocca e pronunciare “Omar”.
Incalzo: “Sei italiano?”
“Si”, mi risponde. ”Sono italiano, di Roma. Me chiamo Omar perché a mia madre je piaceva un attore che se chiamava così, in un film vecchio, ‘na cosa tipo Zivago”.

È solo l’inizio di un racconto che durerà per circa un’ora.

Omar è un fiume in piena, come se quelle mie due semplici domande avessero dato la stura ad un bisogno di comunicare, di contatto, di vicinanza che il suo questuare, fine solo a se stesso, evidentemente non gli concede spesso.

Lo osservo con attenzione: ha gli occhi chiari, ora non più invisibili dietro le lenti piene d’impronte dei suoi occhiali; da un cappuccio di lana spunta una massa di capelli ricci e striati di grigio, tagliati in maniera asimmetrica come capita quando, nel riflesso di uno specchio, l’ordinaria manualità nell’uso delle forbici si altera; il viso è rugoso e scurito, come quello di certi contadini esposti per giornate intere ai capricci del sole; le mani sono gonfie e martoriate, tanto da sembrare inadeguate a movimenti fini.

Ha 44 anni, Omar, ma, a dispetto della sua condizione, sembra persino più giovane. La sua vita per strada è iniziata circa quindici anni fa, quando sua madre (che aveva allora la mia età!) “se l’è portata via il male più brutto che c’è”. Suo padre se n’era già andato da tempo, non anagraficamente, ma dai suoi sentimenti. Da allora era stato unicamente un precipitare degli eventi.

Ha un diploma da geometra, Omar, e per qualche tempo ha avuto anche un lavoro. Poi l’ha perso ed è cominciato il suo pellegrinaggio tra agenzie e uffici di collocamento. La sua disabilità anziché offrirgli una corsia preferenziale su quei percorsi che si dicono riservati, si è rivelata per ciò che davvero è: una condizione discriminante, incompatibile con la tipologia dei pochi lavori che era riuscito a trovare. “Signora mia, mi spiega lei come avrei potuto lavare le scale dei condomini nella mia condizione? E poi, che’, se risponde ‘cerca su internet’ a uno che nun c’hà manco i sordi per pagà ‘e bollette?”.

Mi racconta allora della sua infermità: gli è stata causata dal morbillo, quando aveva cinque anni. Era rimasto nove giorni in coma e, al risveglio, quando sua madre lo aveva preso tra le braccia, si era accorta che le gambe erano inermi. Aveva subito un intervento che gli aveva consentito quantomeno di rimettersi in piedi, sebbene in quella maniera malferma; un altro lo aveva rifiutato a causa dell’elevato rischio di non riuscita che presentava.

Mi racconta, ancora, che qualche tempo dopo la morte di sua madre aveva dovuto anche lasciare la casa dove abitavano, una di quelle finite nella girandola delle dismissioni immobiliari degli Enti pubblici, perciò venduta all’asta. Ora vive in un monolocale a San Basilio, una delle periferie critiche della città, tant’è che preferisce venire fin quaggiù, a Montesacro, a questuare per non correre il rischio di pestare i piedi (che paradosso per lui!) a qualche sciacallo che osi pretendere percentuali anche sulle elemosine. Ci arriva con un amico, dice, che ogni mattina passa a prenderlo e la sera lo riporta indietro. Non mi spingo oltre nel chiedergli come mai questo amico non riesca ad aiutarlo diversamente: la risposta potrebbe essere a sua volta un penoso racconto.

Mi dice che il padrone di casa gli ha chiesto 250 euro d’affitto per venirgli incontro, ma che per lui è tanto, visto che di pensione di invalidità ne prende solo 290. Per questo è costretto a “fare la colletta” - come la chiama lui, usando un eufemismo che mortifica meno dell’idea di mendicare - che altrimenti non ce la farebbe a pagare anche le bollette.

“Ecco”, aggiunge a quel punto, ”l’ultima volta ho dovuto sceglie’ se paga’ la bolletta della luce o quella del gas, perché nun avevo abbastanza. Ho pensato che ormai comincia a fa’ caldo e dell’acqua calda ne posso fa’ a meno. Perciò ho pagato quella d’a luce. Il gas mo’ me l’hanno tagliato, ma ‘na vicina m’ha prestato un fornelletto elettrico per cucina’ qualcosa. M’ ha detto che posso tenerlo finché nun me riallacciano il gas. Ce l’ho quasi fatta a raccoglie’ i soldi che mi mancano ppè paga’ l’arretrato.”

La mia mente si fissa su quel dettaglio, tanto che a fatica riesco a prestare attenzione al seguito del racconto.
Mi rendo improvvisamente conto che spesso, tutti noi che sediamo sugli spalti dei più fortunati a guardare a distanza la miseria altrui, spesso tendiamo a dubitare della veridicità delle loro storie, condizionati dal quel pregiudizio che – con anche un pizzico di cinismo - ci induce ad immaginarne fantasiose alterazioni, costruite ad arte per tingere di maggior drammaticità vicende altrimenti troppo ordinarie, al solo scopo di suscitare la pietà necessaria a far allentare i lacci della borsa.

Altre volte ci capita anche di pensare che il vero fine delle “collette” – come le chiama Omar – sia diverso ed altro da quello dichiarato e che esse servano piuttosto a comprare polveri o fluidi magici che procurano parentesi d’illusioni dentro cui confinare la disperazione o l’affanno di tragiche realtà.

Crediamo, soprattutto, che i diseredati siano solo quelli che sbarcano clandestinamente nei nostri porti, in fuga da terre martoriate, dove guerre e soprusi rendono inattuabile la pretesa di chi esorta la politica d’aiutarli a casa loro. E li accusiamo, li insultiamo, li colpevolizziamo d’essere responsabili di squilibri che, se fossimo più obiettivi, vedremmo che invece già risiedono negli strati della nostra affatto incorrotta società.

“Sei italiano?”
Provate a chiederlo al giocoliere che lancia palle in aria al semaforo o al lavavetri che vi fa cenno col suo straccio bagnato, senza sorprendetevi se vi capiterà che più d’uno vi risponda nella nostra lingua e la cadenza tipica di una nostra regione.
E la prossima volta che andrete a fare la spesa, spendetela una briciola del vostro tempo per ascoltate la storia di un altro Omar che vi chiede una moneta, mettendo da parte ogni pregiudizio ed avendo pena non della sua misera vita ma della nostra comune incapacità di riuscire a vederlo come nostro simile e non come scarto dell’umanità.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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