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Storie di (pari) dignità

Autore: Ester Annetta
Gianni Lanciano, cinquantenne napoletano, macellaio per 27 anni e da 6 disoccupato, si guadagna da vivere facendo il rider, in sella al suo motorino.

In una sera d’inizio anno, sta percorrendo Calata Capodichino, a Napoli, per fare alcune consegne; in piena zona rossa, la strada è ovviamente deserta e perciò, senza alcuna prudenza né timore, sei persone mal distribuite su due motorini lo accerchiano: hanno il volto coperto - e non certo da mascherine protettive - perché il loro intento è di non rendersi riconoscibili mentre intimano a Gianni di scendere dal suo mezzo e consegnarglielo.

Qualcuno, dalla finestra d’un fabbricato che si affaccia su quella strada, riprende la scena con un telefonino. Gianni di lasciare il suo motorino non ci pensa nemmeno: quei pochi soldi che riesce a guadagnare con le consegne e con le mance racimolate gli servono per sostenere la sua famiglia, i suoi due figli.

La scena è di una drammaticità disarmante: più che per le botte ed i calci che riceve lo è per la strenua resistenza con cui Gianni si oppone alla sottrazione del suo motorino. Tenta di rimanere in sella, prova anche a ripartire sgusciando dalla presa dei rapinatori, ma non ci riesce. Anche quando il motorino viene spinto di lato, lui insiste a trattenerlo con una sola mano, mentre con l’altra tenta di parare i colpi che i suoi aggressori continuano a scaricargli addosso. Il cubo giallo portavivande cha ha appeso sulla schiena ostacola i suoi movimenti, facendoli sembrare quasi robotici; eppure Gianni non molla, la sua mano continua a reggere quel manubrio, come fosse una parte di sé, del proprio corpo, da proteggere da una mutilazione.

Finché, in due lo afferrano dalle spalle e lo trascinano a terra, costringendolo a lasciare la presa, mentre un terzo sfila fulmineo il motorino, senza nemmeno farlo cadere in terra, e vi sale in sella. Lesti, gli equipaggi dei tre mezzi si ricompongono, con due passeggeri ciascuno, stavolta, mentre Gianni resta solo, fermo in piedi in mezzo alla strada, osservando disperato portar via il suo “mezzo di sostentamento”.

Il video girato dallo spettatore viene consegnato alle forze di polizia, si divulga rapidamente e, nel giro di qualche ora, consente di identificare alcuni degli autori dell’aggressione. Sono dei minorenni, “figli di Gomorra”, come qualcuno li ha definiti: rampolli di boss più o meno noti che con quel gesto hanno forse compiuto il loro rito iniziatico di appartenenza alla grande famiglia della camorra, dimostrando a padri orgogliosi d’esserne degni per il loro coraggio e la loro omertà. Versano lacrime di coccodrillo davanti al magistrato che li interroga, si accusano a vicenda, negano di conoscere l’identità dei loro complici, seguendo alla lettera le istruzioni di un codice d’onore con cui sono stati evidentemente svezzati, perché non si corresse il rischio che altre regole ed altra disciplina, estranea e retta, contaminasse la loro formazione.

I notiziari e i giornali fanno da cassa di risonanza alla vicenda, continuando a riproporla, aggiornandola continuamente, ribadendola con forza per sottolinearne non solo la cronaca ma quegli aspetti niente affatto secondari che vi si ricollegano: il dramma della disoccupazione, la dignità d’un cinquantenne che non si arrende, la penosa realtà d’una gioventù bruciata.

E intanto la gara di solidarietà ha inizio: a Gianni, dignitoso pater familias che ha continuato a sacrificarsi accettando un lavoro indegno per la sua età pur di non abbandonare i suoi cari all’indigenza, vengono offerti denari, un motorino nuovo e persino un lavoro vero.
Tutto è bene ciò che finisce bene. Fine della storia.

Ma c’è un’altra storia che, invece, non è finita altrettanto bene. Risale anch’essa a qualche giorno fa, prima della fine dell’anno, e benché sia stata molto più drammatica, pare non aver meritato la stessa risonanza della vicenda appena narrata.

Ha occupato le prime pagine mediatiche come un flash presto dimenticato, con un tempo ed una cura dedicate ben inferiori a quelli spesi per servizi sui festeggiamenti di fine anno condannati ad un tono minore.
Protagonista ne è stata una donna: si chiamava Agitu Ideo Gudeta ed era etiope.

La sua è una storia esemplare, di grande valore, di forte dignità e di riscatto.

Aveva 42 anni Agitu, e da dieci era diventata un’imprenditrice, investendo tutte le sue forze e le sue energie in un progetto cui ha (letteralmente) immolato la vita.

Era fuggita dal suo paese nel 2010 per sottrarsi ad un condanna a morte decretata da un regime solo in apparenza democratico ma di fatto sostanzialmente dittatoriale.

Da anni il governo etiope sottrae la terra ai contadini per darla a grandi investitori stranieri che realizzano enormi monocolture: uno schema che si chiama Land Grabbing ed è ovviamente sostenuto dalle solite multinazionali di matrice americana o europea. Ufficialmente Usa e paesi Europei appoggiano la “democrazia” etiope quale affidabile partner nella lotta al terrorismo; nella realtà, l’interesse sotteso a questo supporto ha natura prettamente economica. Persino l’Italia fa la sua parte, per via dell’interesse di alcune imprese coinvolte nel business dell’industria idroelettrica in Etiopia, a motivo del quale s’è resa complice, negli anni, della distruzione di fiumi, di piccole economie locali e dello spostamento forzato di intere popolazioni.

Non sono perciò mancate occasioni in cui le proteste dei contadini sono state fatte passare per azioni terroristiche e si è dunque intervenuti (sempre con l’appoggio degli “alleati”) con sanguinose repressioni, come accadde a ottobre del 2016 quando i militari spararono sulla folla durante una manifestazione uccidendo 700 persone di etnia Oromo. Allora persino Feysa Lilesa, maratoneta etiope medaglia d’argento alle olimpiadi di Rio, aveva rischiato la vita e la galera per aver tagliato il traguardo facendo il gesto della manette, nell’intento di portare all’attenzione internazionale la repressione del governo nei confronti di quella minoranza etnica.

Agitu lavorava con i contadini del suo popolo e si batteva per opporsi alla Land Grabbing. Quando i suoi compagni di lotta erano stati assassinati, lei era riuscita a scappare, tornando in Italia, grazie ad un permesso di soggiorno per studio ancora valido: aveva infatti studiato a Trento e si era laureata in sociologia.

Lì, in una malga di Frassilongo, nella Valle dei Mocheni, aveva costruito da zero un’azienda agricola e un allevamento di capre – “La capra felice”- facendosi ben presto conoscere ed apprezzare dai locali e non solo.
Era così diventata un simbolo d’integrazione, un esempio vivente di contrasto al diffuso pregiudizio che vuole tutti gli immigrati sfaticati, ladri ed approfittatori: la riuscita del suo progetto, realizzato senza che nessuno le regalasse niente, era diventata perciò anche uno strumento per poter parlare di immigrazione in un altro modo.

Lavorava sodo, Agitu, dormendo solo quattro ore per notte e dividendosi tra la mungitura delle capre, i mercati, il negozio che aveva da poco aperto ed un nuovo progetto che avrebbe voluto avviare in primavera, per la realizzazione di un agriturismo.

Il tutto senza mai dimenticare i suoi affetti: la sua famiglia ed il suo popolo, dai quali un giorno sarebbe voluta tornare.

Aveva perciò sempre accolto i suoi connazionali ed altri immigrati africani, offrendo loro lavori stagionali in base alle necessità del periodo.

Proprio uno di loro, Adams Suleiman, un 32enne ghanese che viveva ospite di Agitu e per la quale aveva lavorato, l’ha uccisa a martellate lo scorso 29 dicembre, nel corso di una lite sorta a causa di una mensilità non corrisposta.

Fine della storia, stavolta senza lieto fine.

Ora il gregge di Agitu è rimasto orfano. Oltre alle cure prodigategli dai conoscenti, da quei concittadini che tanto ammiravano il coraggio, la forza e la determinazione di quella donna straordinaria, nessuna gara di solidarietà si è scatenata per impedire che il suo sogno, dignitosamente realizzato, perisca a causa dell’abbandono. Nessuno l’ha commemorata rendendo virale la condivisione d’un suo ricordo. Nessuno, dopo la notizia iniziale, ha riproposto la sua storia, la sua vita, il suo dramma. Molti neppure sanno chi sia Agitu.

Viene allora spontaneo domandarsi perché, quali siano le ragioni recondite per cui sia la storia di Agitu e della cieca violenza che ne ha stroncato l’esistenza, sia le sorti per la sua attività non abbiano destato la stessa partecipazione e lo stesso interesse della vicenda del rider napoletano; perché la storia d’un successo col finale tragico abbia, sul pubblico, meno presa d’una storia di disperazione inaspettatamente ribaltata; se non basti solo la dignità dimostrata dai protagonisti a dar valore ad una vicenda ma vi influiscano altre inconfessabili ragioni; se è perché c’è bisogno di lasciar passare messaggi di fiducia e speranza e non perché le reazioni umane si arrestano spesso davanti al confine imposto dal pregiudizio…

Meglio, forse, non fornire risposte se il rischio è quello di pungere la coscienza: a volte pare essere più conveniente scendervi a patti, così da salvare almeno le apparenze.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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