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È il tardo pomeriggio d’una domenica d’autunno; sono in auto con una mia amica, di ritorno da teatro.
Sul Lungotevere Maresciallo Diaz, all’altezza dell’Università del Foro Italico, un grosso Suv procede a centro strada davanti a me, impedendomi di svoltare a sinistra, verso la Tangenziale Est. Aziono la freccia e spingo appena il clacson. Noto che il Suv sbanda leggermente, come se il conducente fosse stato distratto e il suono del mio clacson l’avesse richiamato all’attenzione. Difatti, nel sorpassarlo, mi accorgo che è al telefono.
Mi lascia passare, accompagnandomi a sua volta con un lungo colpo di clacson.
Il mio vantaggio dura solo pochi metri, perché poco dopo il Suv mi si affianca dal lato del passeggero e, dal finestrino aperto, il conducente mi fa un gesto volgarissimo, alludendo ad un certo tipo di “prestazione orale” che vorrebbe gli fornissi. Lo ignoro e accelero, proseguendo per la mia strada.
Poco dopo il Suv mi raggiunge nuovamente, mi supera e mi si para davanti, mentre l’uomo alla guida, sporgendo la mano dal finestrino mi sventola una banconota da venti Euro, il prezzo che evidentemente mi pagherebbe per quella prestazione…
Io e la mia amica ci guardiamo basite. Nessuna di noi ha il coraggio di parlare o di commentare, come se quel gesto ci avesse colpito ed abbattuto, come se ci vergognassimo, come se ci sentissimo in qualche modo in difetto.
Appunto mentalmente la targa di quel Suv, ben consapevole che non me ne farò nulla.
Quell’uomo ci ha svilite, annientate. Ha zittito le nostre voci, privandoci d’ogni reazione, incredule ed impotenti davanti ad una esibizione che non è stata di solo machismo ma di vera e propria violenza.
Quell’episodio e tutta la rabbia inespressa che ho provato in quel momento mi tornano in mente in questi giorni, mentre circola la notizia di una giovane donna – Valentina - che ha compiuto un gesto di giusta denuncia per un caso analogo, un altro dei tanti che si ripetono quotidianamente, ovunque, ed a cui siamo divenute forse ormai così avvezze da dimenticarci che non costituiscono la normalità, ma una continua offesa ed una brutale violazione della nostra dignità e del nostro genere.
Valentina ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto in cui ritrae un paio di pantaloni beige, un cappotto marrone, una maglia rosa, una sciarpa chiara e un paio di stivaletti bassi: sono ciò che indossava qualche giorno fa, ad una fermata dell’autobus, in centro, a Genova, quando un operaio alla guida di un mezzo della nettezza urbana, accostandosi, l’ha insultata chiamandola “Troia”.
Quella parola Valentina l’ha sovrascritta alla foto dei suoi vestiti, a voler anticipare la risposta a chiunque avesse potuto sentenziare – come spesso accade – che, con i loro abiti succinti, sono proprio le donne per prime a rendersi colpevoli di provocare gli assalti animaleschi degli uomini.
«Non sono un cappotto o un burqa a poterci proteggere dalla molestie maschili, perché non è come siamo vestite la causa dell'abuso, ma la loro convinzione di avere il potere decisionale sulle donne. Su donne che non conoscono, che potrebbero essere le proprietarie della loro azienda. Non importa: ciò che importa loro è che sono donne»: così ha scritto Valentina nel lungo post con cui ha accompagnato la sua foto, raccontando tutto il malessere ed il disagio procuratogli da quell’insulto, cui altri se ne sono aggiunti da parte dell’operaio e del suo degno compare seduto accanto a lui: «Io tra la rabbia e la paura sono soltanto riuscita a gridargli contro, cosa che ha soltanto alimentato le loro risate. Troia e isterica. Non c'è scampo, non si può combattere da sole nei loro spazi, con i loro metodi. Dobbiamo appropriarci degli spazi delle nostre città, insieme, tutte quante. Non possiamo dover avere paura di occupare il nostro posto nel pubblico. Se c'è bisogno di un coprifuoco che non sia quello che ci autoimponiamo per timore di essere aggredite, perché non sono le vittime a dover essere limitate ma i carnefici. Che siano loro a temere le strade occupate dalle donne. Perché io sono stanca di dover essere insultata e aggredita per essere donna, e come me tante altre».
Mi torna anche in mente il potente e commosso monologo di Rula Jebreal, che dal palco di Sanremo, qualche sera fa, ha raccontato la storia di sua madre, morta suicida per non aver potuto domare il peso del dolore e della vergogna di un corpo abusato, quando aveva solo tredici anni, da un uomo “che aveva le chiavi di casa” e che si è sentita violentare una seconda volta da un sistema che non le ha mai permesso di denunciare.
«Parlo agli uomini: lasciateci essere quelle che siamo, madri, casalinghe, donne in carriera. Siate nostri complici, indignatevi insieme a noi […] Che non si chieda più a una donna stuprata come era vestita. Non vogliamo più avere paura, essere vittima, essere una quota.»
Valentina non ha avuto paura, non ha voluto essere un’altra vittima, e ha fatto qualcosa di più: ha inviato un e-mail all’Amiu - l’azienda municipalizzata per i rifiuti di Genova - e all’assessorato della mobilità della città, raccontando l’accaduto. L’Azienda ha risposto, assicurando di avere avviato verifiche per risalire all’identità del presunto autore dell’insulto sessista e ricordando di essere tra le prime realtà aziendali ad aver sottoscritto l’accordo quadro sull’eguaglianza, pari opportunità e assenza di discriminazioni e rispetto della dignità delle persone.
Se un seguito ci sarà è da vedersi. Ed è auspicabile.
Ma ciò che intanto conta è il forte segnale che Valentina ha voluto dare: quello che tutte le donne insultate, abusate, represse, imprigionate nella paura abbiano la consapevolezza di non essere colpevoli, di non doversi vergognare, e non cadano più in quel gioco perverso che, da vittime, vuol trasformarle in conniventi, in provocatrici, condizionandole al punto di limitare se stesse, il loro modo d’essere o di vestirsi, perfino i loro spostamenti, invece di inchiodare il vero reo, il sopraffattore.
C’è altro da fare prima ancora d’arrivare a punire i colpevoli, ed è la necessità di dover smontare le convinzioni di quegli uomini che pensano di potere tutto - insulti, gesti osceni, molestie o violenza fisica e psicologica – e di poter sottomettere, perché ritengono d’essere superiori, più forti o più potenti, …magari solo perché si rivestono della corazza dei loro Suv.