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Vittime e colpevoli

Autore: Ester Annetta
C’era tantissima gente lunedì mattina al funerale di Jessica Malaj; una folla commossa ed indignata che, a dispetto della pioggia che continuava a cadere da giorni, era lì a rendere l’ultimo saluto alla giovane vittima d’una inaudita violenza domestica.

C’era anche sua madre, com’era naturale che fosse.

Seguiva la bara bianca di sua figlia seduta su una carrozzina a rotelle, ancora troppo debole e provata dalle ferite riportate a sua volta nella furia dell’aggressione subita da quell’uomo violento, che in realtà era lei che avrebbe voluto uccidere per prima.

Suo marito. Il padre di Jessica.

A 16 anni appena, quella ragazza dolce e generosa ha tentato di difendere sua madre dai fendenti del coltello che la colpiva, facendole scudo col suo corpo. È morta per lei, per proteggerla, invertendo prepotentemente l’ordine naturale delle cose che vorrebbe che fosse più una madre ad immolarsi per salvare la sua creatura. A morire per amore.

Eppure, Tefta l’opportunità di difendere Jessica l’aveva già avuta prima di lei, diverso tempo prima. Non aveva saputo coglierla, però; l’aveva lasciata andare, l’aveva negata. Per paura o per vergogna.

Da circa due anni – cioè da quando ne aveva 14 – Jessica riceveva da suo padre quel genere di attenzioni che solo alle bestie che agiscono d’istinto, senza alcuna razionalità, inconsapevoli dell’incestuosità di certe relazioni, possono consentirsi.

Tefta lo sapeva. Sua figlia stessa, vincendo l’imbarazzo, glielo aveva confidato.

Ne aveva anche avuto conferma dalle telecamere che, dopo, aveva nascosto in casa. Attraverso quell’occhio segreto li aveva visti quegli atti osceni e disgustosi che suo marito, in sua assenza, compiva su Jessica.

Agli inquirenti che l’hanno ascoltata dopo i fatti di quella tragica notte, quando la furia omicida di suo marito si è scagliata prima sul vicino di casa – che riteneva essere suo amante – e poi su Jessica, Tefta ha raccontato che la gelosia era solo una copertura. L’uomo avrebbe in realtà compiuto quel massacro solo perché temeva di essere denunciato, dal momento che sua figlia aveva infine deciso di rivelare gli abusi che continuava a subire.

Due anni.

Troppi per un’adolescente che ancora nemmeno ha imparato a riconoscersi nelle sue nuove fattezze, ché già sono state violate.

Due anni senza comprendere dove finissero i confini dei suoi silenzi e della sua vergogna ed iniziassero quelli di sua madre.

Due anni durante i quali quella madre non ha saputo difendere una figlia che, invece, per lei l’ha fatto, morendo perfino al suo posto.

C’è allora in questa drammatica vicenda una sfumatura di colpevolezza che va ricercata oltre quella, evidente, di colui che materialmente ha impugnato un coltello per uccidere.

Ed ha una connotazione ben precisa: si chiama ignoranza.

Essa è certamente, in primis, quella che – secondo il suo significato letterale - indica la mancanza di conoscenza.

D’una tale ignoranza è colpevole senz’altro Tefta: non conosceva l’uso di strumenti e norme che avrebbero potuto aiutarla e tutelarla; ignorava le modalità di accesso a servizi che avrebbero potuto supportarla; non sapeva che la denuncia d’un reato è più forte della vergogna.

Poi c’è, però, anche l’ignoranza che vale come sinonimo di indifferenza.

Di questa seconda, ha colpa chi, pur avendo occhi e orecchi, è rimasto estraneo e distante dal grido d’aiuto soffocato oltre la parete che divideva la propria tana da quella in cui una bestia continuava, impunita, a torturare le sue prede.

A veder bene allora, ed in tale misura, forse tutti noi dovremmo sentirci colpevoli, giacché sempre più spesso ci barrichiamo dietro muri che dividono e ci rifugiamo in tane che nascondono, scegliendo ‘consapevolmente’ di restare ‘ignoranti’.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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