L’agevolazione nata al fine di mitigare i gravi effetti economici e finanziari subiti dagli operatori economici a seguito della pandemia che ha colpito il mondo intero sta assumendo contorni epici, una partita a scacchi dagli esiti tutti da scrivere. Consapevoli di una norma scritta male ed attuata peggio, l’equivoco di escludere un’ampia fascia di liberi professionisti potrebbe infatti rivelare inaspettate sorprese.
Come noto l’articolo 25 del
Decreto Legge Rilancio riconosce, salvo alcune eccezioni, un contributo a fondo perduto a favore dei soggetti esercenti attività d’impresa, di lavoro autonomo ed agricola, titolari di partita IVA, così come definiti dal testo unico delle imposte sui redditi. Tuttavia, ferma restando la verifica dei limiti dimensionali e la misura della contrazione del fatturato, la norma esclude espressamente dall’agevolazione i professionisti iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria. Secondo il legislatore, per motivi ancora tutti da comprendere, non possono accedere al beneficio i lavoratori autonomi iscritti, in ragione della professione esercitata, alle casse private di previdenza obbligatoria.
Orbene, superando almeno per un momento la questione etica di differenziare il trattamento di operatori, imprenditori e professionisti, senza alcuna reale giustificazione economica e sociale, dai requisiti soggettivi tracciati dalla norma emerge, oggi un’ipotesi sulla quale lavorare, anche in termini corporativi per il riscatto professionale, una concreta possibilità per gli studi associati disciplinati dall’articolo 5 del
TUIR che sono, a sua volta, partecipati dai professionisti apparentemente esclusi dal secondo comma dell’articolo 25. Il legislatore, se da un lato non esclude la categoria reddituale di cui trattasi dal fondo perduto, prevedendo espressamente fra i beneficiari i soggetti esercenti l’attività di lavoro autonomo, dall’altro estromette espressivamente dall’agevolazione solo coloro i quali, in relazione alla predetta attività, siano iscritti all’ente previdenziale privato. In altri termini, secondo l’interpretazione letterale della disposizione normativa, devono considerarsi esclusi i soli lavoratori autonomi esercenti un’attività professionale in forma individuale, perché solo essi possono essere iscritti ad un ente previdenziale di diritto privato. L’associazione professionale, infatti, oltre ad avere una propria soggettività, giuridica e tributaria, non è soggetta ad alcuna iscrizione previdenziale.
Nel senso prospettato dovrebbe spingerci anche l’interpretazione logica della norma e l’indagine della ratio perseguita dal legislatore. Il contributo a fondo perduto nasce quale strumento di sostegno del fatturato, una integrazione finanziaria a ristoro della redditività irrimediabilmente perduta nei giorni del lockdown; le indennità già tracciate nel
Decreto Cura Italia, al contrario, assumono essenzialmente una funzione sociale, un sostentamento al singolo individuo, anche e soprattutto per le sue esigenze individuali e famigliari, nella tragedia economica in corso.
Alla predetta soluzione si perviene, inoltre, analizzando i requisiti soggettivi delle disposizioni citate: mentre gli articoli da 27 e 44 del Decreto Cura Italia individuano fra i beneficiari esclusivamente le persone fisiche iscritte rispettivamente alla gestione separata INPS ed agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria, non potendo essere diversamente, l’articolo 25 del Decreto Rilancio abbraccia potenzialmente tutti gli operatori economici salvo, appunto, alcune esplicite esclusioni che, come tali, devono essere interpretate restrittivamente.
In questo senso, dopotutto, anche l’Agenzia delle Entrate. Nella
Circolare 15/E del 13 giugno 2020 l’amministrazione Finanziaria apre espressamente alle società fra professionisti, in ragione della natura del reddito prodotto, indipendentemente dal fatto che i soci ricadano o meno nelle ipotesi di cui al comma 2 del menzionato articolo 25, nella consapevolezza che società e soci costituiscono soggettività differenti. Inoltre, andando le STP a sostituire le Associazioni Professionali disciplinate dalla Legge 23 novembre 1939, n. 1815, norma esplicitamente abrogata proprio dalla riforma del settore, non vi sarebbero ragioni giuridiche per escludere queste ultime dai benefici di legge. Non certo in considerazione del reddito prodotto, ma per logica e, se vogliamo, equità.