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Recentemente la Corte di Cassazione (Sez. VI Pen., Sent. 33464/2018) ha avuto modo di pronunciarsi in tema di assoggettamento alla disciplina ordinistica dell’attività di consulenza tributaria e aziendale e quindi all'integrazione del reato di esercizio abusivo di una professione, ex art. 348 cod. pen., là dove l’attività professionale venga esercitata in difetto della speciale abilitazione dello Stato.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato da un sessantaquattrenne di Cagliari, condannato dal Giudice di appello alla pena di un mese di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile (nella specie, Ordine dei commercialisti), per aver esercitato abusivamente, quale titolare di Società, prestazioni professionali per le quali era richiesta l'iscrizione all'Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili o a quello dei consulenti del lavoro.
Nel caso che ci occupa, la Corte d’Appello di Cagliari ha ricondotto le attività ascritte all'imputato, di tenuta della contabilità delle imprese e in materia del lavoro, a quelle riservate dal D.lgs. n. 139 del 2005 («Costituzione dell'ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma dell'art. 2 della L. 24 febbraio 2005, n. 34 ai dottori commercialisti») e dalla L. n. 12 del 1979 («Norme per l'ordinamento della professione di consulente del lavoro»).
La Corte territoriale ha ricostruito che la Società di consulenza riconducibile all’imputato, priva di dipendenti, si relazionava direttamente con i clienti finali, mentre il Centro studi ad essa collegato era dotato di dipendenti privi dell'autorizzazione all'esercizio della professione.
L’imputato, per mezzo di difensore di fiducia, ha negato il carattere abusivo della generica attività di consulenza tributaria e aziendale svolta, perché riconducibile alle Legge del 14 gennaio 2013, n. 4, di liberalizzazione delle professioni non organizzate o senza Albo. Ha altresì evidenziato di aver informato i propri clienti di essere privo di un’abilitazione professionale e di agire per esperienza, maturata negli anni, per cui non vi sarebbe alcuna violazione dell’affidamento dei terzi (Cass. S.U. 11545/2012). Infine, l'imputato ha dedotto la propria buona fede, comprovata dall’autorizzazione da lui ottenuta a operare sul servizio telematico dell'Agenzia delle Entrate.
Ebbene, nel caso di specie viene in rilievo l’articolo 348 del Codice penale, che dispone (a decorrere dal 15/02/2018):
In particolare, la Sentenza delle Sezioni Unite n. 11545 del 2012 ha stabilito che l’esercizio della professione è abusivo sia per l’assenza della prescritta abilitazione sia perché si è tradotto in una pluralità di atti che, pur non riservati in via esclusiva alla competenza specifica di una professione, nel loro continuo, coordinato e oneroso riproporsi ingenerano una situazione di apparenza evocativa dell'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato, con conseguente affidamento incolpevole della clientela. (Precisamente, secondo le Sezioni Unite: «Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma nell’art. 348 c.p. non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato»).
In applicazione dell’indicato principio con riguardo alla professione di dottore commercialista e di consulente del lavoro, la Corte d’Appello, secondo gli Ermellini, «ha debitamente valutato le attività svolte dall'imputato, per poi apprezzarne la piena riconducibilità alla contestata fattispecie di reato».
Di conseguenza, il ricorso dell’imputato è stato respinto, con condanna al pagamento delle spese.