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L’Amministrazione finanziaria, con le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, può provare la falsità delle fatture e quindi la bontà dell’avviso di accertamento impugnato. Le dichiarazioni che gli organi dell'Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.
È quanto emerge dall’Ordinanza n. 17127/2018 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio che ha annullato l’avviso di accertamento per IRAP, IVA e IRPEF 1997, con il quale veniva contestato al contribuente, esercente attività di commercio di autoveicoli usati, costi relativi a operazioni inesistenti documentati da tre fatture, recanti come causale “sistemazione macchine e pulizia”.
Tali fatture, secondo l’Ufficio, non solo riportavano una descrizione generica della prestazione, ma facevano anche riferimento a un codice fiscale attribuito a una società diversa da quella emittente; inoltre l’amministratore “di fatto” di quest’ultima aveva dichiarato alla Guardia di finanza di non aver mai eseguito lavori per il contribuente, cosa del resto impossibile in ragione dell’attività esercitata (“trasporti e facchinaggio”).
Ebbene, la CTR del Lazio, a conferma del verdetto della CTP, ha ritenuto la ripresa a tassazione illegittima perché fondata su una mera presunzione, a fronte del fatto che il contribuente aveva provveduto al pagamento delle prestazioni fatturate, inerenti a un servizio oggetto dell’attività esercitata.
A questo punto la parola è passata ai Giudici di legittimità, i quali hanno dato ragione all’Amministrazione finanziaria in merito al valore probatorio delle dichiarazioni dell’amministratore “di fatto” della società emittente.
Gli Ermellini affermano che: