7 gennaio 2014

Censura per l’avvocato “prestanome”

Sentenza della Cassazione in tema di deontologia professionale

Autore: Redazione Fiscal Focus
È legittima la sanzione disciplinare della censura per l'avvocato che, dietro pagamento di un compenso, si propone come “prestanome” ai colleghi non abilitati al patrocinio presso le magistrature superiori. È quanto emerge dalla sentenza 16 dicembre 2013, n. 27996, della Corte di Cassazione.

L’iniziativa scorretta.
Le Sezioni Unite Civili hanno trattato il caso di un legale sottoposto a procedimento disciplinare per essere venuto meno, secondo l’Ordine di appartenenza, “ai doveri di probità e correttezza”, per avere inviato una comunicazione via e- mail a circa ventimila colleghi con la quale proponeva una convenzione annuale del costo di 1.500 euro più IVA comprendente la rappresentanza “per una volta davanti all'eccellentissima Corte di Cassazione e per una volta presso il Tribunale di Torino, Milano o Roma” e la sottoscrizione dei ricorsi predisposti da avvocati non abilitati avanti alla Suprema Corte.

La difesa.
Con il ricorso per cassazione il legale ha sostenuto che non vi fossero margini per l’applicazione della sanzione disciplinare perché la condotta non si era concretizzata in alcun atto processuale. Nessuno dei contattati, infatti, aveva aderito alla proposta; si era pertanto alla presenza di un mero tentativo di illecito, non sanzionabile ai sensi del codice deontologico forense.

Le osservazioni della S.C. Ebbene, a giudizio degli Ermellini, il CNF ha fatto bene ad applicare la sanzione della censura, trattandosi di un’iniziativa deprecabile “assurta – si legge in sentenza - ad eclatante notorietà negli ambienti professionali forensi”. Il codice deontologico, infatti, fa esplicito divieto (articolo 21 n. II) di agevolare lo svolgimento di attività professionale da parte di soggetti non abilitati o sospesi dall'esercizio della professione.

Gli Ermellini osservano che “il principio di stretta tipicità dell'illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense”. In quest’ambito non è prevista una tassativa elencazione di comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella di alcuni doveri fondamentali, quali la probità, la dignità, il decoro, la lealtà e la correttezza. Su questi principi deve essere improntata l'attività dell'avvocato “sia professionale sia non professionale (articolo 5 n. II del codice), la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare”.

Nelle motivazioni le SS.UU. richiamano un precedente pronunciamento (sentenza 10601/2005) con il quale si è chiarito che “anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto, in quanto lesivo dell'immagine dell'avvocato, costituisce di per sé una scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante”. Si deve pertanto escludere un’interpretazione in chiave penalistica della norma deontologica, quindi la necessità di una “consumazione” del fatto.
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