Premessa - Attenzione alle “assenze tattiche”. D’ora in poi, infatti, la cattiva abitudine di assentarsi spesso a cavallo dei giorni di riposo, nei turni di fine settimana oppure notturni, possono costare caro all’assenteista. In questi casi, il provvedimento del datore di lavoro è quello del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in quanto vi è una complessiva inadeguatezza della prestazione assicurata dal dipendente, a causa della mancata presenza in servizio per un paio di giorni al mese, che crea malcontento fra i colleghi costretti alle sostituzioni. Ciò vale anche se non si è superato il periodo di comporto. A stabilirlo è la Cassazione con la sentenza n. 18678/2014 che affronta un argomento di costante attualità nel mondo del lavoro.
La vicenda – Il caso riguarda un uomo licenziato dalla società datrice di lavoro – come risultato dalle deposizioni dei colleghi di lavoro all'esito dell'istruttoria svolta nei precedenti gradi di giudizio – in quanto era solito comunicare le assenze per malattia “all'ultimo momento”. Gli eventi morbosi, peraltro, si manifestavano “quando doveva affrontare il turno di fine settimana o il turno notturno” con conseguente “difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto”. Il ricorrente, al quale avevano dato torto anche i giudici del tribunale di Vasto e quelli della Corte d’appello dell’Aquila, chiedeva di dichiarare illegittimo il licenziamento, sostenendo che questo “può intervenire solo se viene superato il periodo di comporto”, ovvero il numero complessivo di assenze, fatto che non si era verificato nel caso in esame. I giudici dell’Aquila, invece, avevano rilevato che “l’eccessiva morbilità, dovuta a reiterate assenze, anche indipendente da colpevolezza dello stesso e nei limiti del periodo di tolleranza contemplato dalla contrattazione collettiva”, aveva integrato “gli estremi dello scarso rendimento”, cosicché la prestazione del dipendente “non si rilevava più utile per il datore di lavoro”.
La sentenza – La Suprema Corte conferma la tesi dei Giudici di merito, rilevando che le assenze, “per le modalità con cui si verificavano”, per “un numero esiguo di giorni, due o tre, reiterate all’interno dello stesso mese e costantemente ’agganciate' ai giorni di riposo del lavoratore” (fino a raggiungere anche 520 ore in un anno) “davano luogo - si legge nella sentenza - ad una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale così da giustificare il provvedimento risolutorio”. Inoltre, continua la Cassazione, le assenze davano anche “luogo a scompensi organizzativi”: “comunicate all’ultimo momento”, infatti, “determinavano la difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto”, osservano i Giudici, anche considerato che il lavoratore “risultava assente proprio allorché doveva effettuare il turno di fine settimana o il turno notturno, il che causava ulteriore difficoltà nella sostituzione (oltre che malumori nei colleghi che dovevano provvedere alla sostituzione), ciò anche in ragione del verificarsi delle assenze ’a macchia di leopardo'”. Per la Corte, dunque, il licenziamento è stabilito dal datore di lavoro per ragioni tecniche: non è importante la malattia in sé, ma la quantità di assenze che, pure incolpevoli, danno luogo a uno scarso rendimento del dipendente e finiscono col danneggiare la produzione aziendale per via degli scompensi organizzativi.
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