19 gennaio 2015

Contratto a tutele crescenti. Il punto dei CdL

I CdL passano in rassegna il nuovo decreto sul contratto a tutele crescenti evidenziandone soprattutto l’impatto che avrà sui licenziamenti

Autore: Redazione Fiscal Focus
Premessa – La Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, con la prima circolare dell’anno, ha esaminato sotto il profilo giuridico ed economico il nuovo decreto delega sul contratto a tutele crescenti, che si appresta a compiere il suo iter di approvazione in Parlamento dopo l’ok ottenuto dalla Ragioneria generale dello Stato. In particolare, gli esperti della Fondazione hanno evidenziato le conseguenze che il nuovo decreto delega avrà sui licenziamenti.

Il decreto delega –
Il 24 dicembre scorso il Governo ha approvato gli schemi di decreti delega, che danno attuazione di quanto previsto dal Jobs act (L. n. 183/2014) in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. In particolare, uno dei due decreti introduce una specifica disciplina sulle conseguenze per il datore di lavoro nel caso in cui ponga in essere un licenziamento illegittimo; si considera tale il licenziamento nullo perché discriminatorio o per altre cause di nullità previste dalla legge oppure quando risulti accertato dal Giudice che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Sul punto i CdL evidenziano che, qualora in base a una valutazione di proporzionalità accertata dal Giudice sia riscontrata la legittimità del licenziamento, nessuna reintegrazione o indennità sarà dovuta al lavoratore.

Campo di applicazione - Il decreto trova applicazione per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla sua data di entrata in vigore. Dunque, si ritengono esclusi: i rapporti a tempo determinato cui resta applicabile la disciplina giurisprudenziale in caso di recesso anticipato che si è formata sull’applicazione dell’art. 2119 c.c. e i rapporti con qualifica dirigenziale cui si applica la tutela contrattuale di riferimento e l’art. 18, comma 1 dello Statuto.

Licenziamenti nulli - L’art. 2, comma 1 del decreto afferma che qualora “il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”. A questa fattispecie sono perciò riconducibili tutti quei casi in cui il licenziamento sia stato determinato da motivi di natura politica, razziale, di lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali. Nulla di nuovo, dunque, rispetto ai primi tre commi dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. È altresì nullo il licenziamento intimato in forma orale in quanto la forma scritta è il requisito minimo di rilievo giuridico che il nostro ordinamento richiede per l’efficacia del licenziamento.

Risarcimento del danno – Una volta accertata la nullità e l’inefficacia del licenziamento, il giudice è chiamato a condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, maggiorata degli interessi e della rivalutazione monetaria, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.

Licenziamento disciplinare - Per quanto concerne il licenziamento disciplinare ingiustificato, cioè non supportato da giusta causa e giustificato motivo soggettivo, il legislatore sceglie la strada di privilegiare la tutela indennitaria rispetto a quella reintegratoria, optando tuttavia per una decorrenza della nuova normativa a partire dalle assunzioni successive alla data di entrata in vigore del decreto. Dunque, vanno ricompresi in tale ambito quelle ipotesi di licenziamenti che si caratterizzano per una sostanziale sproporzione tra il fatto accertato e la sanzione applicata.

Licenziamento economico – Sostanziali novità sono state introdotte per quanto riguarda il licenziamento intimato per GMO (ossia per motivi economici); in tali casi infatti è illegittimo “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. I CdL evidenziano come il Legislatore non abbia toccato i presupposti sostanziali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che dunque rimangono quelli di sempre: la sussistenza della ragione produttiva e organizzativa (art. 3 L. n. 604/1966) e il nesso di causalità di tale ragione con la posizione soppressa; il c.d. repêchage; l’eventuale applicazione dei criteri di scelta. Viene modificato, inoltre, l’apparato sanzionatorio in caso di licenziamento economico illegittimo. Prima della Riforma Fornero (L. n. 92/2012) nelle realtà c.d. “grandi” (cioè le aziende sopra i 60 dipendenti e le unità produttive sopra i 15 dipendenti in ambito comunale) la conseguenza del licenziamento economico illegittimo era sempre l’applicazione del “vecchio” art. 18, cioè l’inefficacia del licenziamento e una indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni per il periodo non lavorato, oltre alla reintegrazione in servizio (sostituibile dal lavoratore con 15 mensilità). Ora, invece, si è determinato un doppio regime sanzionatorio: se il fatto posto a base del recesso è “manifestamente insussistente” si applica una versione attenuata del vecchio art. 18, con la reintegrazione (salvo l’opting out del lavoratore) e l’indennità risarcitoria contenuta in un massimo di 12 mensilità, mentre in tutti gli altri casi il rapporto si interrompe e il dipendente ha diritto soltanto a una indennità che va da 12 a 24 mensilità (a scelta del giudice in base ai criteri legali).

Contratto a tutele crescenti –
Infine, nelle aziende con unità produttive fino a 15 dipendenti in ambito comunale (e sotto i 60 dipendenti complessivamente), per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del decreto non si applica più la L. n. 604/1966 (c.d. tutela obbligatoria), ma un regime di tutele crescenti dimezzato rispetto agli altri lavoratori, con esclusione della reintegra nelle ipotesi di insussistenza del fatto materiale (art. 9, comma 1 del decreto). Sul punto va evidenziato che il licenziamento ingiustificato – sia economico che disciplinare – estingue (come sempre) il rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto a una indennità pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 6 mensilità. Ciò significa che l’importo dell’indennità giudiziale è di 2 mensilità fino al termine del secondo anno di servizio, per poi crescere di una mensilità ogni anno fino al sesto anno di servizio.
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