13 febbraio 2021

Ciò che non sempre vediamo

Autore: Ester Annetta
Luca non ha mai parlato ad un pubblico: non di certo ad un uditorio vasto come potrebbe essere quello radunabile nell’aula magna o nella sala teatro; ma nemmeno a quello più modesto composto dai suoi 23 compagni di classe.

Le interrogazioni non contano, sono un discorso a parte: lì non c’è un pubblico, ma uno sfondo; nessuno si interessa a ciò che dice, anzi, l’interrogazione di un qualunque compagno è, per gli altri, sempre l’occasione per distrarsi impunemente: sbirciare di sottecchi le notifiche sul proprio telefonino o rileggere gli appunti per la verifica della materia dell’ora successiva, sperando in un colpo di fortuna che rimedi allo scarso impegno dedicato allo studio a casa.

L’interrogazione è solo una faccenda tra lui e il Prof.: rapida, essenziale, senza interruzioni; conclusa da quel perentorio “Fine!” con cui Luca significa che non ha altro da aggiungere, la cesura definitiva alla sua esposizione che non concede spazio a repliche, domande o richieste aggiuntive.

È un bel ragazzo, Luca; abbastanza alto da svettare sui suoi compagni di classe, se non fosse per la sua postura un po’ curva, che accompagna la testa e lo sguardo quasi sempre rivolti verso il basso. È magrissimo, mite, silenzioso; sempre composto nel suo banco che tiene in ordine rigoroso. Non volge mai lo sguardo verso gli insegnanti né fissa mai negli occhi i suoi interlocutori; sorride poco ed in maniera appena accennata; la sua voce è bassa e cupa, ma, per quel poco che parla e scrive, si esprime con una proprietà di linguaggio inusuale.

Luca ha appena compiuto 18 anni: l’età dell’”ora-posso-tutto” cui ogni adolescente guarda come ad una conquista, pregustando libertà, indipendenza, licenziosità, ignorando quanto invero si tratti di miraggi ingannevoli.

Ma per lui non è così; i suoi anni restano solo un dato anagrafico: Luca è estremamente corretto – rigido, anzi - e rispettoso delle regole tanto da rifiutare persino di cogliere i suggerimenti che gli si offrono durante un compito, considerandoli una maniera per “barare”.

Che meraviglia sarebbe se tutto questo derivasse soltanto da uno spiccato senso della lealtà e dell’onestà! Se fossero realmente questi i filtri attraverso cui Luca seleziona i suoi comportamenti e le sue azioni!

La realtà è, invece, che Luca ha un “Disturbo dello spettro autistico”, espressione eufemistica che, sostituendo l’idea di un “possesso” a quella di una “qualità” (quale quella dettata dall’aggettivo corrispondente - autistico – ) pretende di ridurne “l’effetto etichetta”, sebbene, nella sostanza, il significato resti identico.

Luca è infatti pur sempre un ragazzo “con disabilità” (ed anche qui il “con” serve a ridurre la pena del solo aggettivo “disabile”), compreso nel novero dei tanti che – in barba alle innumerevoli norme, linee guida, atti di indirizzo, note, circolari ministeriali e programmi che promuovono l’Italia a Stato numero uno per “inclusione”, nei fatti continuano a restare emarginati.

Il contesto reale è quello in cui non solo risulta difficile la concreta attuazione degli interventi previsti dalle tante norme a sostegno delle perone con difficoltà (si pensi a quella sul sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto dalla L. 328/2000), ma anche inefficiente appare il sostegno alle loro famiglie, la cui recalcitranza nell’accettare il “diverso modo di essere” dei propri figli costituisce spesso il maggior impedimento alla possibilità di elaborare progetti di vita finalizzati ad un loro futuro inserimento nella società, anche quella del lavoro. Molte sono infatti quelle che tendono ad agire secondo le proprie aspettative di genitori più che secondo le reali necessità dei propri figli, finendo per caricarli di attese, progetti, scopi che inevitabilmente finiranno per rivelarsi causa di frustrazione.

Succede, allora, che l’impalcatura costruita passo dopo passo dalla scuola, con impegno e fatica, per fornire sostegno ad un adolescente con disabilità, venga improvvisamente divelta.

Cosicché Luca, all’ultimo anno delle superiori, dopo aver efficacemente percorso un cammino mirato, prima ancora che all’apprendimento di saperi, all’incremento della propria autonomia e, soprattutto, della relazione con i suoi pari, deve mollare tutto a vantaggio del guadagno di quel “pezzo di carta”, che per lui comunque non farà la differenza.

Difatti, a causa delle sue difficoltà, ha finora seguito un suo programma “differenziato” rispetto a quello della classe; il che comporta che, pur sostenendo l’esame di maturità, non potrà conseguire un diploma, ma soltanto un attestato di crediti formativi, valido per l’iscrizione a percorsi professionalizzanti.

Il cambio di passo preteso dalla famiglia all’ultimo momento si è rivelato ben presto un fallimento per Luca che, di fronte alle tante e nuove difficoltà richiestegli per uniformarsi al programma della classe ha finito per demotivarsi e rinchiudersi ulteriormente in quel suo tipico isolamento che già la didattica a distanza e la paura della pandemia avevano contribuito ad incrementare.

La soluzione è diventata, allora, il repentino passaggio ad un’altra scuola, uno di quei noti “diplomifici” in cui col denaro si riescono ad acquistare, evidentemente, anche competenze che in realtà non esistono.

Il tutto nell’ottica di incoraggiare aspettative – poter andare all’università, poter diventare un professionista, poter fare carriera – destinate ad infrangersi nell’impatto con la realtà, dura, di una società che non è poi davvero convinta che “diversità” significhi “specialità” ed in cui – ove non dominino i favoritismi – la regola del successo resta pur sempre la competizione, quella che Luca non potrà mai sostenere.

Perciò oggi tiene il suo primo discorso davanti alla classe che – anch’essa per la prima volta – lo ascolta come un vero pubblico.

L’insegnante chiede il silenzio, perché il tono della voce di Luca è troppo basso per imporsi. Ma anche se così non fosse, lui non urlerebbe mai perché non rientra nei suoi schemi.

“Vorrei dirvi una cosa” – esordisce. E intanto sorride, perché quella è l’espressione che meglio ha imparato ad usare e non è in grado di dare altro volto alle sue emozioni.
Ma ciò che sente dentro dev’essere invece altro, più doloroso, un nodo che per un istante gli blocca le parole, affievolendogli ancor di più il tono della voce.
Tutto quello che sa fare è, allora, colpirsi: un pugno forte, proprio lì, al centro del petto, dove quelle parole si sono fermate e non devono invece restare, perché – ancora una volta – “è corretto” che sia così.
“Da martedì io cambierò scuola”.
C’è un secondo di silenzio ancora più intenso; poi un lieve brusio, un “perché?” appena sussurrato, non invadente, perché i compagni riconoscono lo sforzo che Luca sta facendo e sanno di non doverlo interrompere.
“Abbiamo iniziato questo percorso insieme, ed insieme siamo stati per tutti questi anni. Solo che voi siete andati più avanti di me ed io sono rimasto indietro. Perciò, adesso, devo andare in un’altra scuola dove mi permetteranno di potervi raggiungere.
Pausa.
Mi scuso di dovervi dare questo dispiacere”.

Luca forse non comprende pienamente il senso di ciò che ha appena detto: ripete una “lezione” che gli è stata impartita per rendergli accettabile un rivoluzionario cambiamento, che sarebbe difficile per chiunque, ma che, per una persona col suo tipo di disturbo – dominato da schemi routinari – lo è ancora di più.
Ma è l’ultima frase quella che più colpisce, la preoccupazione che vi è contenuta: non è quella per se stesso, per il proprio futuro da domani in poi, ma è per quelli che restano, per quel banco vuoto con cui dovranno confrontarsi ogni mattina. È come se Luca dicesse ai suoi compagni: coraggio, ce la farete!
La diversità è autenticità, non differenza.
È un difetto di superficie dietro cui si nasconde una ricchezza profonda che a volte ignoriamo.
È una lezione di vita di fronte alla quale noi “normodotati”, schiavi del nostro egoismo, delle nostre pretese e della nostra indifferenza, non dovremmo affatto considerarci più fortunati.
Noi che vantiamo lauree e specializzazioni, non saremo mai capaci di dire con altrettanta autenticità “Mi dispiace”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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