29 maggio 2021

Il ritorno della notte

Autore: Ester Annetta

Confesso di essermi emozionata quando, qualche mattina fa - portando a spasso il cane che da un mese circa alberga in casa mia per una scelta indipendente di mio figlio (che dopo nemmeno due settimane ne ha però abdicato la gestione!) – ho rivisto sulla vetrina di un bar la locandina de La Nottola.

Per chi non è romano, una spiegazione è d’obbligo.

La Nottola è un poster di medie dimensioni che, settimanalmente, riporta la programmazione dei cinema di Roma e provincia e l’indicazione di altri eventi culturali. Lo espongono sulle loro vetrine quasi tutti i bar e le pizzerie a taglio, a beneficio della lettura più o meno distratta dei “consumatori in piedi”, clientela tipica di quel tipo di esercizi anche in tempi pre-pandemici.

La sua stampa era stata sospesa durante il lungo periodo in cui ogni luogo di intrattenimento è rimasto forzatamente chiuso; ma la breccia aperta dall’ultimo provvedimento governativo - che, allentando la morsa dei divieti, ha concesso la graduale ripresa anche di quelle forme di svago il cui fermo aveva più d’ogni altro penalizzato le serate degli italiani – ne ha evidentemente consentito la rinascita.

Mi sono fermata a contemplarlo, quasi fosse una visione, notando subito che – a differenza del solito – le sue indicazioni erano meno fitte: numerosi sono infatti i cinema, specie i multisala, che hanno deciso di rinviare ancora per un po’ la riapertura, mentre i teatri hanno quasi unanimamente deciso di rinviare a settembre la ripresa dei cartelloni, poiché il classico “conto della serva” ha dimostrato che, a fronte degli esigui guadagni recuperabili dal ridottissimo numero di spettatori consentito nelle sale, non ci sarebbe stata possibilità nemmeno di compensare le spese di produzione e messa in scena.

Questo aspetto meriterebbe una distinta ed autonoma riflessione, essendo noto che il settore dello spettacolo e dell’intrattenimento è stato tra quelli più penalizzati dalla pandemia, senza nemmeno aver ottenuto adeguati ristori. Ma si aprirebbe un capitolo lungo e pungente, cui sarebbe adeguata altra sede di disamina.

Quello che invece mi piace riportare è l’avvertita percezione di un senso di ritorno alla normalità di cui la ricomparsa de La Nottola si è fatta tramite.

Ho riflettuto allora su quanti e diversi siano ormai i segnali che sembra vogliano sollecitare un ritorno a quelle abitudini che la pandemia aveva costretto a mettere da parte, rispolverando interessi e concedendo di riappropriarsi di spazi e tempi dismessi.

“È tornata la notte”, ho dunque pensato; e stavolta non si tratta di una metafora con cui vuole indicarsi il buio del lungo tunnel che ci ha intrappolato nell’ultimo anno, ma di un concetto lineare, da intendersi esattamente come suggerito dall’espressione letterale.

Ora si potrà tornare a rivedersi nei locali, ad andare a cena fuori, a breve pure a ballare (ma per quindici minuti!) o a tirar tardi anche solo intrattenendosi in chiacchiere con un gruppo di amici invitati a cena nel giardino di casa.

Si indosseranno ancora le mascherine, ma la sicurezza offerta dal “tanto sono vaccinato”, concederà una maggiore discrezionalità nello scegliere se offrire ancora il gomito o il pugno ad un saluto o concedersi finalmente un abbraccio.

E poi, quando l’allerta sarà del tutto passato, quando qualcuno proclamerà solennemente la fine dell’emergenza rendendo ai giorni i ritmi e le abitudini archiviati, tutto ritornerà com’era un anno fa, prima delle zone rosse, prima del dilagare dei contagi, prima delle morti, prima della paura…

Ad un tratto quel pensiero positivo è repentinamente mutato.

Ne siamo sicuri? – mi sono chiesta - Siamo certi d’esserne capaci? O non sarà, invece, che ci ritroveremo cambiati, diversi, e non perché saremo più cauti e guardinghi, ma perché non saremo più capaci di entusiasmo?

Languishing. Pare essere questa la nuova parola – l’ennesima inglese – destinata a connotare il nostro prossimo futuro, il nostro ritorno alla normalità.

Il termine è comparso qualche settimana fa in un articolo di uno psicologo della University of Pennsylvania – Adam Grant - pubblicato sul New York Times. Tradotto in italiano, significa “languore” ed indica lo stato emotivo che sembra aver caratterizzato la quotidianità dei mesi della pandemia: assenza di benessere, di scopo e di gioia; perdita della motivazione e della spinta vitale; conseguente stato di inerzia e devitalizzazione.

L’Autore dell’articolo l’ha testualmente definito come “un senso di stagnazione e di vuoto”, come se i giorni si confondessero tra loro e “la vita venisse guardata come attraverso un vetro appannato”.

È un disagio vero e proprio, una sorta di lutto perenne che attutisce le emozioni, una apatia costante che impedisce di prendere gusto per ogni cosa che accade e che nemmeno la graduale riconquista della normalità concessa dalle riaperture riesce a rimuovere.

Siamo dunque vittime della generalizzata “emozione di non provare emozioni”, come se a farci paura ora fosse la vita - non più la morte - come se temessimo di immergerci di nuovo in essa e preferissimo invece galleggiarci sopra.

Il paradosso è che, proprio ora che potremmo riprendere in mano le redini dei nostri giorni e del nostro tempo rischiamo di lasciare che le cose ci accadano, che la vita ci passi sopra e che ad essa ci abbandoniamo passivamente.

Il timore è allora che la pandemia, cessata l’emergenza sanitaria, ci lasci un potente strascico, che potrebbe tradursi in una nuova emergenza - psicologica stavolta – in cui a tornare potrebbe essere un’altra, diversa e lunga notte.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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