Americanate!
Solitamente è così che si pone rispetto ai riti di Halloween chi ne contesta l’appartenenza alle nostre tradizioni, sottolineando l’ormai smodata ed esecrabile tendenza (non solo italiana!) ad una globalizzazione che interessa persino quegli ambiti che, almeno per difesa del proprio patrimonio culturale, dovrebbero invece restarne incontaminati.
Lo ha fatto di recente anche un ormai noto Presidente di regione in uno dei suoi tanto acclamati siparietti, sebbene sottendendo motivazioni di natura prudenziale più che campanilistiche, alla luce delle quali, vista la rischiosità del momento, sono da evitare occasioni di assembramento a sfondo ludico/festereccio.
L’argomento offre tuttavia l’occasione di raccontare quali siano le origini di Halloween e come la sua tradizione si allinei, per alcuni tratti, ad altre consimili già presenti in alcune nostre regioni, benché in gran parte ormai desuete.
Va anzitutto precisato che la festa non è nata in America; appartiene infatti alla tradizione irlandese e corrispondeva originariamente a Samhain, il capodanno celtico. I Celti, in quanto popolo di pastori, scandivano i propri ritmi di vita in base ai tempi che l’allevamento del bestiame imponeva e che erano diversi da quelli dei contadini. Alla fine della stagione estiva, quando dai pascoli di montagna riportavano a valle le greggi per prepararsi all’arrivo dell’inverno, festeggiavano l’inizio del nuovo anno, che per loro cominciava il 1° novembre, quando terminava la stagione calda ed iniziava la stagione delle tenebre e del freddo.
Il tema centrale della festa era la morte: quella della natura, che, in realtà, durante l’inverno si ritraeva per rinnovarsi sotto terra, dove riposavano anche i morti. Ecco perciò che la festa aveva finito per accostarsi anche al culto dei morti. Secondo la credenza popolare, alla vigilia di ogni nuovo anno - cioè il 31 ottobre – gli spiriti dei morti potevano unirsi al mondo dei viventi, abbattendo temporaneamente le leggi del tempo e dello spazio. La paura della morte veniva così esorcizzata con l’allegria della festa del capodanno; durante la notte del 31 ottobre si accendevano fuochi e la gente, mascherata, andava in giro portando lanterne intagliate in cipolle e rape.
Quando, nel V secolo, iniziò (con San Patrizio, divenuto poi patrono d’Irlanda) l’evangelizzazione delle isole britanniche, la Chiesa tentò di sradicare i culti pagani esistenti. Nel 610 Papa Bonifacio IV istituì la celebrazione della festa di Tutti i Santi, fissandola il 13 maggio, giorno in cui l’antico edificio romano del Pantheon venne consacrato al culto cristiano della Vergine Maria e di tutti i Martiri.
Le feste di origine pagana – tra cui la Samhain - continuavano però ad essere celebrate in tutti i territori evangelizzati; perciò nel 731 papa Gregorio III decise di spostare la festa di Ognissanti al 1° novembre, nell’intento di soppiantare la festa pagana dedicata ai morti: quelli da festeggiare dovevano essere i morti “buoni”, cioè i santi.
Samhain mutò quindi le sue sembianze, divenendo Halloween – All Hallows Evening - cioè la sera (o vigilia) di tutti i Santi.
Ai morti “comuni” la Chiesa concesse che fosse dedicata un’altra festa, il giorno dopo quella dei Santi.
Nel 1845 sull’Irlanda si abbatté la Grande Carestia: una malora delle patate causata da un fungo distrusse un terzo del raccolto di quell’anno e l'intero raccolto dell’anno successivo. La popolazione – che su quel tubero basava gran parte della propria alimentazione – fu ridotta alla fame. Iniziarono così le migrazioni verso gli Stati Uniti d’America, che alla fine del secolo giunse ad accogliere circa un milione e mezzo di irlandesi.
La tradizione di Halloween si trasmise dunque al Nuovo Mondo, sebbene col passare degli anni perse sempre di più i suoi connotati religiosi: non si festeggiavano più i Santi della Chiesa cattolica e non si pregava più per le anime del Purgatorio, ma prevalse la nuova formula di una festa in cui si andava di casa in casa a chiedere doni ballando, cantando e facendo scherzi.
La festa dei morti come rituale legato al culto della terra non è però una tradizione esclusiva di alcuni luoghi (l’Irlanda, nella specie) ma, più genericamente, appartiene al mondo agro-pastorale, per il quale l’alternanza delle stagioni calda e fredda aveva un valore altamente simbolico: alla stasi della Natura durante i mesi invernali, quando tutto diventava freddo, buio e immobile, corrispondeva la stagione dei morti.
Si credeva, anzi, che ci fosse un breve periodo, a cavallo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, in cui i morti, custodi della terra dove riposavano i semi che sarebbero germogliati l’anno successivo, potevano fare ritorno nel mondo dei vivi. Si trattava di dodici giorni (dodecameron), dati dalla differenza tra l’anno lunare (che è quello che si considera per la semina dei campi ed è composto di 12 mesi di circa 29 giorni e mezzo) e l’anno solare: un tempo “sospeso”, in cui tutte le attività umane si fermavano, e “magico”.
I morti, però, potevano essere anche cattivi e pericolosi, perciò occorrevano dei rituali volti ad ingraziarseli.
Da qui, l’origine delle varie tradizioni legate al culto dei morti.
In Italia ne residuano parecchie, più o meno tutte con le stesse caratteristiche, tra cui l’usanza di imbandire la tavola per i defunti che, la notte di Ognissanti, fanno ritorno nelle loro case, dove devono essere lasciati accesi dei lumi (di solito ricavati in zucche intagliate) perché ne ritrovino la via.
In Puglia, a Orsara (FG), tra l’1 e il 2 novembre si festeggiava la “notte del Purgatorio”: le zucche col simbolo della croce venivano lasciate davanti alle case per scacciare le anime dei dannati dal banchetto serale, a cui potevano accedere solo le anime buone. A mezzanotte, iniziava la questua: uomini incappucciati e vestiti di nero giravano in processione bussando a tutte le porte chiedendo “l’aneme d’i murt” (“l’anima dei morti”), cioè gli avanzi del banchetto per distribuirli ai poveri.
In Calabria, a Serra San Bruno (VV), i ragazzini intagliano una zucca per riprodurre un “coccalu di muortu” (un teschio) con cui si aggirano per le strade chiedendo “Mi lu pagati lu coccalu?” (“Me lo pagate il teschio?”);
anche in Abruzzo i ragazzi bussano alle porte portando zucche che rappresentano “Cocce de Morte” e chiedendo ”l’aneme de le morte” per ottenere dolci, frutta secca o spiccioli;
in Sicilia la “Festa dei Morti” è simile a Natale per i bambini: se saranno stati bravi, i parenti defunti porteranno il cannistro, un cesto pieno di giocattoli e dolci, tra cui le “ossa ri morti”, dolci a forma di tibie umane;
in Sardegna la festa dei morti ha, addirittura, diversi nomi: Is Animeddas al sud e Su Mortu Mortu nel nord della regione. La sera del 31 ottobre si cena con la pastasciutta e si sta attenti a lasciare nel piatto una porzione per Maria punta boru, una vecchina che se non trova da sfamarsi buca la pancia dei commensali con il suo uncino (punta boru).
Ma anche in Toscana, Piemonte, Friuli, Emilia sopravvivono ancora antichi rituali legati al culto dei morti e dell’avvicendarsi delle stagioni.
Al di là della coincidenza temporale e della comune discendenza, sarebbe però più apprezzabile che le nostre tradizioni mantenessero la loro originalità e la loro territorialità, senza confondersi né omologarsi a modelli ormai divenuti veicoli del consumismo e che quasi più nulla conservano del loro originario significato.