Dopo un travagliato iter disseminato di revisioni e ripensamenti, l’Italia ha finalmente ratificato la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società”, meglio nota come “Convenzione di Faro”, dal nome della località portoghese dov’è stata presentata il 27 ottobre 2005 e che il nostro Stato aveva già sottoscritto nel 2013 senza tuttavia procedere alla successiva ratifica.
Nell’ottobre 2019 il Senato aveva votato favorevolmente per l’adozione della Convenzione, mentre l’approvazione definitiva da parte della Camera è arrivata solo nei giorni scorsi, il 23 settembre.
Si tratta di un importante strumento –a tratti rivoluzionario - in difesa e promozione del patrimonio culturale, meglio ridefinito con il concetto più innovativo di “eredità culturale”, intesa – ai sensi dell’art. 2 comma 1 della Convenzione – come “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato del l’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi.”
L’obiettivo della Convenzione è quello di far sì che i Paesi aderenti si impegnino nel riconoscere che “il diritto all’eredità culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (art. 1) e che la “conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita” (art.2).
Allo stesso articolo 2 si specifica meglio il concetto di “comunità di eredità”, intesa come “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un'azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.”
Scopo della Convenzione è dunque quello di promuovere un maggiore protagonismo dei cittadini nella gestione e nella promozione del patrimonio culturale, sancendo il diritto, individuale e collettivo, "a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento" (art. 4), evidenziando la necessità che il patrimonio culturale sia finalizzato all'arricchimento dei "processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell'uso del territorio" (art. 8).
L’'identificazione, lo studio, la protezione e la conservazione del patrimonio culturale appartengono dunque ai cittadini e, pertanto, ogni Stato aderente alla Convenzione deve “promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare.”
Evidenti sono gli agganci all'articolo 9 della nostra Costituzione, laddove si indicano tra i compiti della Repubblica la promozione e lo sviluppo della cultura (e della ricerca scientifica e tecnica) nonché la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tuttavia, all’indomani della ratifica della Convenzione da parte dell’Italia, una questione è immediatamente sorta, sollevata da coloro che hanno voluto intravedervi l’insidia di un cedimento a censure “islamiche” della nostra arte, fino ad arrivare, dunque, all’estremo di dover velare le nostre statue.
L’equivoco – ma forse sarebbe più corretto dire la forzatura – è nato dall’interpretazione del contenuto dell’ultimo comma dell’art. 4 della Convenzione, ove si prevede che “l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà.”
Le cennate “limitazioni” previste in nome della protezione dell’interesse pubblico e degli “altrui diritti e libertà” sarebbero state viste come una resa a quelle visioni culturali, come l'Islam, che potrebbero ritenere offensive certe espressioni culturali e, pertanto, secondo tale interpretazione, la Convenzione legittimerebbe censure al nostro patrimonio artistico e culturale per non offendere culture altrui.
L’espressione criticata, andrebbe, invece, in tutt’altra direzione dovendosi intendere le suddette limitazioni (es. la chiusura dei musei) come strumento di “tutela” rispondente a superiori necessità connesse a particolari situazioni (la pandemia Covid) che coinvolgono altri diritti (quello alla salute, per esempio).
Del resto ciò che la Convenzione sostiene è che il patrimonio culturale deve essere uno strumento di pace, di soluzione di conflitti, di conoscenza e comprensione reciproca.
È evidente che, con una tale premessa, non possa poi sostenere, né in maniera esplicita nè tantomeno implicita, che una cultura, per essere rispettosa delle altre, debba essere occultata o repressa.