24 ottobre 2020
24 ottobre 2020

La protesta silenziosa

Autore: Ester Annetta
Il 16 ottobre 1968 è una data che i libri di storia non riportano. Eppure quel giorno accadde qualcosa - si trattò anzi d’un gesto, a dire il vero - che sarebbe stato ricordato come un potente, pacifico, atto rivoluzionario.

L’episodio che invece la storia ricorda era accaduto qualche giorno prima, esattamente il 2 ottobre.
Si era negli anni dei movimenti di massa – di operai, studenti, intellettuali – che, con la loro forte carica di contestazione contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie, interessavano quasi tutti i Paesi del mondo.

A Città del Messico i movimenti studenteschi da mesi stavano protestando contro il governo autoritario del Partito Rivoluzionario Istituzionale, denunciando le drammatiche disuguaglianze sociali nel Paese.

Quell’anno - il 1968 - la città si preparava ad ospitare le Olimpiadi, e l’occasione sembrava adatta a dare una maggiore visibilità alla protesta. Perciò quel 2 ottobre oltre diecimila tra studenti e semplici cittadini erano confluiti nella Piazza delle Tre Culture, nel quartiere popolare di Tlatelolco, per dare vita a una manifestazione antigovernativa assolutamente pacifica.

Sedevano a terra, ascoltando gli interventi degli oratori che si susseguivano sul palco.

Era già buio quando, alle 17.30, un lancio di bengala rischiarò il cielo. Gli sguardi di tutti si levarono in alto e, di lì a poco, quel gregge mansueto cominciò a correre.

In men che non si dica la piazza era stata circondata da unità dell'esercito, che assieme a forze di polizia avevano chiuso ogni via d'uscita.

“L’oscurità genera la violenza e la violenza ha bisogno di oscurità per diventare crimine. Per questo il due di ottobre attese la sera perché nessuno vedesse la mano che impugnava l’arma, ma solo i colpi che sparò”: così avrebbe scritto nel suo “Memorial de Tlatelolco” la poetessa Rosario Castellanos, ricordando quei lunghissimi 29 minuti in cui si compì un massacro. Soldati appostati sui tetti del ministero degli Esteri e alcuni elicotteri in volo iniziarono a mitragliare la folla, mentre lo stesso fecero da terra carri armati e blindati che avanzavano impietosamente.

Oriana Fallaci, che da un grattacielo osservava la piazza per documentare la protesta, venne ferita gravemente.

I militari impedirono a chiunque di avvicinarsi e furono loro stessi a portare via i cadaveri sui propri camion. Alla stampa dichiararono che erano stati i manifestanti ad attaccare le forze dell'ordine e che, dunque, gli spari erano stati per difesa. Comunicarono che i morti erano stati ventinove; anni dopo le inchieste sui fatti rivelarono invece che le persone uccise furono circa trecento: «Le scarpe lasciavano impronte di sangue sul suolo», avrebbe raccontato lo scrittore Eduardo Galeano.

Dieci giorni dopo quella strage venne dato il via ai giochi olimpici.

Il ricordo ancora troppo recente delle morti e del sangue divenne lo spunto per una nuova protesta, più contenuta e silenziosa stavolta, con cui l’attenzione del mondo intero voleva però essere riportata su un’altra violenza, più antica e duratura.

I protagonisti furono due velocisti di colore, preparati dallo stesso college in California.

L’uno, l’esile Tommie Smith, 24 anni, era conosciuto come “The Jet” per la sua velocità incredibile; l’altro, John Carlos, di poco più giovane, era più massiccio, ma ugualmente potente.

Gli atenei americani di allora consideravano i ragazzi neri come macchine per vincere, strumenti per collezionare vittorie e medaglie. Poco importava che studiassero: il loro compito era esclusivamente quello di allenarsi, senza altri pensieri.

Ma John e Tommie invece pensavano eccome, e anzi, volevano tramutare quei loro pensieri in azione: avevano infatti deciso di aderire al “Progetto Olimpico per i Diritti Umani” (Olympic Project for Human Rights), un movimento di cui facevano parte i migliori atleti neri d’America e che si batteva per chiedere uguaglianza ed equità non solo all’interno delle organizzazioni sportive, ma anche oltre lo sport, nella vita di tutti giorni, nella società civile.

Pensavano, John e Tommie, che fosse giunto il momento d’un cambiamento radicale, che portasse a considerare gli atleti neri come persone e non come macchine da competizione, divinità acclamate per il tempo della loro performance e bestie reiette nella vita di tutti i giorni, elevati alla gloria sul podio ma poi costretti a strisciare nel mondo reale.

Ad offrire loro l’occasione per esprimere quei pensieri fu quell’Olimpiade.

Il 16 ottobre corsero entrambi nella finale dei 200 metri. Tommie “The Jet”, con i suoi 19″83 si classificò al primo posto, mentre John, con 20″10, si collocò al terzo posto. Tra i due, con 20″06, giunse l’australiano Peter Norman.

Arrivò così il momento della premiazione; proprio allora, senza alcun proclama, senza alcuna invettiva, ma solo attraverso i gesti ed i simboli il messaggio di Tommie e John doveva essere diffuso.

I due campioni, perciò, si avviarono verso il podio scalzi, reggendo ciascuno in mano una sola scarpa: quei piedi nudi rappresentavano la povertà degli afroamericani. Tommie indossava una sciarpa nera, mentre John s’era sbottonato la tuta, per dimostrare solidarietà ai lavoratori americani, e aveva al collo una collana fatta di piccole pietre, ognuna della quali simboleggiava un nero linciato o ucciso solo perché rivendicava i propri diritti. Entrambi avrebbero dovuto indossare un paio di guanti neri, in segno di solidarietà con il movimento del “black power”, che in quegli anni lottava tenacemente per i diritti dei neri negli Stati Uniti. Solo che John aveva dimenticato i suoi, così Tommie gliene prestò uno.

Salirono sul podio per la premiazione, ricevettero le medaglie e si girarono verso l’enorme bandiera statunitense appesa sopra gli spalti in attesa che suonasse l’inno degli Stati Uniti d’America. Quando le note iniziarono a risuonare nello stadio, Tommie e John, chinarono la testa, come in preghiera, e alzarono un pugno chiuso, quello guantato di nero: «Il mio pugno alzato voleva dire il potere dell’America nera. Quello di Carlos l’unità dell’America nera. Insieme abbiamo formato un arco di unità e forza»: così, dopo, avrebbe spiegato quel gesto Tommie Smith.

Sullo stadio scese il silenzio.

Peter Norman, l’australiano, l’uomo bianco che sembrava non entrarci nulla in mezzo agli altri due né con la causa e la lotta del “black power”, indossava anche lui la spilla dell’Olympic Project for Human Rights, in segno di solidarietà pura e disinteressata verso i suoi compagni.

Un fotografo immortalò quell’attimo struggente, che in breve fece il giro del mondo.

In maniera non violenta i due atleti avevano messo in atto quella disobbedienza civile che era stata auspicata da Martin Luther King, morto poco prima delle Olimpiadi.

Quando scesero dal podio, Tommie e John non sapevano ancora che quel gesto, fiero e coraggioso, aveva distrutto le loro carriere per sempre: furono espulsi dalla squadra nazionale per vilipendio alla bandiera e banditi dal villaggio olimpico.

Tornati a casa, nessuno volle più farli partecipare ad alcuna competizione sportiva e persero anche il lavoro.

Accadde lo stesso anche a Norman; molti anni dopo, quando morì per un attacco cardiaco, furono proprio le braccia di quei due colossi neri che si erano levate al cielo con i pugni chiusi a sorreggere la sua bara.

Tommie e John, nonostante il prezzo che hanno pagato per quel loro gesto, non se ne sono mai pentiti, consapevoli che nessuno l’avrebbe mai dimenticato.

La foto che immortala quell’ attimo di coraggiosa protesta ha guadagnato il dono dell’eternità; è memoria, è ricordo, è invito alla riflessione, è messaggio di riscatto e d’orgoglio rivolto alle coscienze.

È l’immagine di un momento, breve, minimo, che testimonia tuttavia che anche i piccoli gesti possono servire a cambiare il mondo.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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