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La rinascita della città che muore

Autore: Ester Annetta
Due mesi fa l’ultimo nato ha portato a ben 12 il numero degli abitanti di quello che, a ragion veduta, è stato annoverato tra i borghi più belli d’Italia.

Civita, frazione di Bagnoregio, provincia di Viterbo.

Merita d’essere visitato almeno una volta nella vita, prima che sia troppo tardi, se davvero il suo triste destino è che un giorno scompaia per sempre.

Vale la pena gustarne la cura e l’armonia che vi regnano, quell’ordine e quella minuziosità dei particolari che lo rendono una pietra preziosa incastonata in una cornice naturale d’una bellezza mozzafiato.

Dall’altro della piccola collina su cui si erge, Civita domina le valli di due piccoli torrenti, il Torbido e il Chiaro: nomi semplici e tipicamente descrittivi, come s’usa nelle fiabe, perché da fiaba sembra lo scenario in cui è calata questa piccola realtà, in un altrove senza coordinate, dove il tempo pare essersi fermato ad un’epoca in cui da ogni viuzza, arco o vicolo possono vedersi spuntare dame e cavalieri.

Bianchi calanchi, erti e levigati, cingono quelle stesse valli, intagliati dal vento e dall’acqua in forme che alla vista regalano la sensazione di un drappo abbandonato, le cui morbide pieghe paiono contraddire la durezza della roccia, che sembra diventare quasi un plastico duttile e malleabile.

Uno stretto ponte di cemento di circa trecento metri rende possibile l’accesso a quel piccolo regno incantato, dove i resti della civiltà etrusca che l’ha fondato si mescolano con i segni d’altre genti e d’altre dominazioni: quelle dei Goti, dei Longobardi e dello Stato della Chiesa.

Quel ponte, datato 1965, non spezza il contesto né lo inquina: sembra anzi un simbolo, una fettuccia – concreta e tangibile – che lega l’oggi all’ieri, il presente al passato, la modernità alla tradizione.

Frotte di turisti l’attraversano ogni giorno, rigorosamente a piedi; l’ammirano prima da lontano, dal belvedere che sorge di fronte alla collina del borgo, misurandone distanza, lunghezza, pendenza. Da quella prospettiva ricorda un tratto di Muraglia cinese o un ponte tibetano sospeso nel nulla; poi, una volta attraversato, diventa un portale del tempo attraverso cui si possono varcare i secoli, andando a ritroso, a giorni e storie lontani.

Il ponte si ferma ai piedi della porta di Santa Maria o della Cava, l’unica tuttora accessibile delle cinque porte che consentivano d’entrare nell’antico abitato di Civita, in aggiunta alla galleria scavata nella roccia che partiva dalla sottostante valle dei calanchi.

Poche sono le case abitate da quei dodici residenti, che resistono alla stregua dell’equipaggio che non vuole abbandonare la nave che affonda. E, tuttavia, anche quelle vuote sono curate, ordinate ed ornate di vasi e parapetti fioriti, come se si accontentassero di mostrare all’esterno quella vita che manca al loro interno.

La piccola piazza principale, antistante la chiesa di San Donato, è un quadrato sterrato racchiuso in una cornice fatta di due gradini. Quel terriccio, quella polvere, paiono contraddire l'ordine e la precisione delle altre stradine intorno; ma non si tratta d’incuria: è la pista su cui ogni anno, la seconda domenica di settembre, si corre il secolare “Palio della Tonna” ("tonda", nel dialetto locale), in cui le contrade del borgo si sfidano a dorso di un asino.

Tradizione, fede e leggenda si legano attorno alla figura del patrono San Bonaventura e dell’antico Crocifisso ligneo collocato all’interno della Chiesa di San Donato: si narra che, durante un suo soggiorno a Civita, San Francesco d’Assisi avesse curato, salvandolo da morte certa, un giovane di nome Giovanni di Fidanza, la cui madre, per gratitudine e devozione, promise al Santo che una volta cresciuto, il figlio sarebbe diventato un servitore di Dio. Divenne, così, Frate Bonaventura da Bagnoregio; il Crocifisso – che il venerdì Santo viene deposto con una commovente cerimonia e portato solennemente in processione per le strade di Bagnoregio – si racconta che, nel 1499, durante un'epidemia di peste che interessò tutto il territorio intorno a Bagnoregio, avesse parlato ad una pia donna che vi pregava davanti ogni giorno per chiedere la fine di quella piaga. La voce del Cristo, rassicurandola, disse alla donna che le sue preghiere erano state esaudite e che da lì a qualche giorno la peste sarebbe finita, come difatti avvenne.

Civita, però, è soprattutto l’emblema della resilienza. Il suo destino è segnato: la collina su cui sorge subisce da secoli una fortissima erosione, sgretolandosi in maniera lenta ed inesorabile. E, tuttavia, proprio questa sua ineluttabile sorte è divenuta motivo di richiamo per migliaia di persone, un pellegrinaggio che non ha conosciuto soste e, anzi, in tempi di pandemia, ha consentito la scoperta di questo delizioso luogo ai turisti nostrani.

Il costo d’accesso al borgo (5 euro), unito all’attività delle tante trattorie e delle aziende agricole che offrono in vendita i loro prodotti, sono divenuti il motore di una nuova economia e di una rinascita insperata.

Sono state dunque profetiche le parole di Bonaventura Tecchi – intellettuale e traduttore nato proprio a Bagnoregio – che, nel 1967, in “Antica Terra” scrisse: “La fiaba del paese che muore – del paese che sta attaccato alla vita in mezzo a un coro lunare di calanchi silenziosi e splendenti, e ha dietro le spalle la catena dei monti azzurri dell’Umbria – durerà ancora” .

Oggi è così; lo sarà ancora, fino alla sua fine.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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