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La scoperta di Petra

Autore: Ester Annetta
Se si trova nell’elenco delle sette meraviglie del mondo moderno è solo perché la sua riscoperta – nel 1812 - è stata successiva alla compilazione della lista canonica di quelle del mondo classico, risalente al III sec. a.C.: non c’è alcun dubbio, infatti, che a Petra spetti un posto nell’Olimpo di quanto di più bello la mano dell’uomo abbia mai realizzato, antico o moderno che sia.

Della sua straordinarietà avevo sentito parlare con toni entusiastici da chiunque l’avesse visitata; le mie aspettative erano perciò molto alte ed il timore che potessero essere disattese - una volta poste davanti ad un mio soggettivo giudizio - altrettanto possibile. Quante volte del resto capita che ciò che affascina e colpisce i sensi di molti si riveli invece una delusione per altri!

Ma per Petra non è stato così: nonostante la stagione inadatta (a quelle latitudini d’estate il caldo non dà tregua, benché in Italia le temperature di questi giorni non siano meno asfissianti!) che ha amplificato la fatica, la maestosità e l’unicità di quel luogo sono stati un’abbondante ricompensa.

Il suo fascino comincia già dalla sua narrazione: quando sia stata edificata di preciso non è certo, ma nel I secolo a.C., divenuta capitale dei Nabatei, Petra aveva cominciato a prosperare, grazie anche alla sua posizione che la poneva al centro della via dell’incenso, una delle rotte commerciali più importanti di quel tempo. La sua fortuna era cresciuta per tre secoli, anche quando era stata annessa all’Impero Romano sotto Traiano e ancora dopo, quando alcune delle sue principali costruzioni avevano cambiato destinazione con Costantino e l’avvento del Cristianesimo. Due grandi terremoti – l’uno nel 363 e l’altro nel 551 d.C. – l’avevano poi distrutta in gran parte, alimentando la leggenda che fosse infestata dai demoni. Da allora era stata progressivamente abbandonata. Vi erano rimaste soltanto alcune tribù beduine, che avevano occupato le cavità scavate nella roccia facendone le loro abitazioni, restando isolate dal resto intorno. Così di quella città imponente che era stata un tempo, si erano lentamente perse le tracce ed era infine scomparsa dalla memoria. Dimenticata per più di cinque secoli.

L’ascolto di questo racconto evoca inevitabilmente nella mente l’incredibile e ricco susseguirsi delle civiltà che è rimasto scolpito su quelle rocce dai colori cangianti al variare della luce del sole. Il percorso attraverso il siq – il profondo canyon che, dall’ingresso del sito archeologico sbuca, dopo poco più di un chilometro, nella sua parte più bella – è un avanzare d’emozioni sempre più intense. Viene spontaneo il confronto con quelle che, nel 1812, deve aver provato l’esploratore svizzero Burckhardt quando riscoprì Petra.

La luce che filtra a tratti nella gola creata dalla frattura nella roccia che ha dato origine al siq, scopre pareti addolcite dal lungo lavorio di vento e acqua: sembrano plastici, morbidi e malleabili, che invitano a provare col tatto una durezza che altrimenti non si percepisce. Dietro ogni curva ci si aspetta di avere una visione fantastica, alterata dalla luce e dalle sfumature di arancio, rosso e rosa che sono valse la fama di questa città dipinta.

Ed infine eccolo: quando manca ancora qualche metro, lo sguardo è già catturato dalle colonne che si intravedono nella ferita che percorre la roccia. Poi, in tutta la sua maestosa imponenza, il Tesoro appare davanti. E’ come se si schiudessero i lembi di un grande sipario e apparisse una scenografia immensa, curata in ogni dettaglio di forma, decoro, e colore. Non ci sono suoni intorno, se non il vociare dei turisti o dei moderni beduini che propongono un giro a dorso d’asino o di cammello. Eppure è come se si percepisse una musica di sottofondo, una colonna sonora in crescendo che proprio lì, davanti a quella ricca facciata, trionfa. Tornano in mente le parole di Michelangelo: "Quando guardo un blocco di marmo, io riesco a scorgervi dentro la scultura. Tutto ciò che mi rimane da fare è togliere i residui": a Petra è così, giacché tutto quanto si vede intorno - il Tesoro, le altre tombe dei re, il Monastero - non è stato costruito ma, rispettando una progressione inversa che va dall’alto verso il basso, è stato scavato nell’arenaria, ricavato dalle rocce come se stesse già lì, in attesa di un certosino scalpello che lo liberasse dall’eccesso che lo nascondeva.

A voler scoprire ogni angolo, visitare ogni resto di tempio, tomba o costruzione, salire su alture, osservare ogni grotta, nicchia o parete sarebbero necessari più giorni e, ad ogni ora, con condizioni di luce diverse, anche il già visto apparirebbe nuovo e diverso.

Non c’è un filo d’erba; tutt’intorno è solo sabbia rossa e roccia. Eppure la sensazione non è di desolazione e deserto, ma pare anzi di sentire gli echi di voci lontane, di vita che è stata, e di scorgere figure sfuggenti che attraversano i mille occhi di grotte disseminate tutte intorno.

L’ultimo traguardo, in cima ad un’altura accessibile attraverso un sentiero irto e roccioso lungo cui si contano 800 gradini, è il Monastero. Non appare di fronte all’arrivo, ma è necessario compiere un’ultima svolta, a destra, perché emerga dall’incavo di roccia in cui è scolpito, ancora più grande e ricco del Tesoro.

C’è un solo punto di ristoro lassù, posto di fronte alla maestosa facciata. Due bandiere nazionali segnano un primo piano oltre cui la visione dell’edificio pare trasmettere una rivendicazione d’appartenenza, quella che legittimamente spetta di ostentare ad ogni Paese detentore di straordinarie ricchezze.

Servono muscoli e fiato per arrivare lassù, ma la ricompensa di quella vista ha, per i sensi, lo stesso effetto di un sorso d’acqua fresca che ritempra dall’arsura e dal calore accumulati nella salita.

Accanto a me, altrettanto accaldati, i miei figli – insperati miei compagni di viaggio - contemplano la stessa meraviglia: la leggo nei loro occhi, pura e vera. L’originaria spinta della curiosità di visitare un posto reso famoso dalle scene di un film di fantascienza ha lasciato spazio ad una sorpresa autentica ed inattesa.

L’emozione più forte allora è lì, davanti a quegli sguardi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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