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Mine vaganti, bellezza inalterata anche a teatro

Autore: Ester Annetta
Chi ha già amato il film, ne amerà altrettanto la riduzione teatrale: Mine Vaganti, uno dei film di maggior successo di Ferzan Özpetek saggia, anche sul palcoscenico, la bravura del regista e degli attori cui ha scelto di affidare le parti, senza sorprese né delusioni.

Non era una sfida semplice quella di riproporre a teatro una storia che, per la sua struttura e per i suoi contesti, avrebbe preteso ambienti, spazi e movimenti più ampi e diversi. Le stesse tematiche trattate avrebbero rischiato di risultare meno efficaci estratte dalle cornici in cui erano state inquadrate e viste dallo spettatore cinematografico.
Le aspettative erano dunque alte, come pure le perplessità circa la riuscita dell’impresa.

E, invece, la pièce non tradisce; rispetta in maniera straordinaria il registro già collaudato sullo schermo, reggendo il confronto con la pellicola senza alcuna sbavatura o esitazione.
Anche chi conosce la trama, non perde d’attenzione e d’apprensione nel seguirne lo srotolarsi e, anzi, attende con partecipazione e curiosità le scene o le battute che meglio ricorda senza avvertirle come ovvie e scontate.

La vicenda rappresentata ha la bellezza ed il fascino di un racconto intimo e corale al tempo stesso, che cattura ed emoziona, alternando saggiamente punte di autentica poesia a momenti comici e, a volte, macchiettistici che tuttavia si incastonano tutti perfettamente in uno svolgimento scorrevole, ricco e molto ben ritmato.

Il cambio delle scene e dei contesti è affidato ad un artifizio molto raffinato ed estremamente efficace: uno scorrere ed incrociarsi di teli e velatini che ricreano, di volta in volta, sfondi e pareti, leggeri e mai incombenti, restituendo un senso di ariosità e ampiezza in cui i personaggi ed i dialoghi spiccano, attraendo l’attenzione senza rischio di distrazione.

E c’è anche un’altra straordinaria trovata che rende ancora più palpabile e concreta la partecipazione dello spettatore: la rottura della quarta parete che divide il palco dal pubblico. Gli attori scendono spesso in platea, trasformandola ogni volta nella piazza, nel cuore pulsante dell’immaginario paese del Sud dove la vicenda si svolge, un meridione (che nel film era salentino e qui è invece campano) che è per antonomasia simbolo di coralità e di condivisione del vissuto e delle vicende di ciascun membro della comunità e dove i sentimenti, i pregiudizi, i legami familiari sono incredibilmente forti ed appassionati.

La storia è ben nota: si muove attorno alla famiglia Cantone, proprietaria di un grosso pastificio, avvolta nelle sue radicate tradizioni culturali e legata ai suoi indiscussi modelli, primo tra tutti quello di un padre-dominus che ha già deciso per il futuro dei suoi due figli, cucendolo all’ineluttabile destino di dover assumere la direzione dell’azienda di famiglia. Il figlio minore, Tommaso, decide però di ribellarsi a quel copione imposto, tornando apposta da Roma (dove si è laureato in lettere e tenta di diventare scrittore, mentre i parenti lo credono studente di economia) per confessare alla famiglia la sua omosessualità, certo così d’esser scacciato. Ma il fratello primogenito lo batte sul tempo, dichiarandosi a sua volta omosessuale, riuscendo anch’esso nell’intento di farsi mandar via.
È lo spunto per innescare una girandola di eventi che di volta in volta porterà a disvelare l’animo ed i sentimenti di ciascun singolo personaggio, con le sue paure, i suoi dolori, i suoi segreti inconfessati.

I temi più sentiti e più cari al regista – così come già raccontati nel film - ci sono tutti: il rapporto con la famiglia, il desiderio di libertà e l’affermazione della propria identità, i pregiudizi, il giudizio della società, più che mai in un meridione legato a schemi e visioni datate, dove il “cosa dirà la gente” funziona ancora come potente termometro per misurare la dignità e l’onorabilità delle persone.

Anche la fisicità degli attori scelti si adatta perfettamente ai personaggi, evocandone in anticipo, rispetto all’interpretazione, carattere e caratteristiche.
Il cast si rivela particolarmente adatto a questa versione teatrale della storia: Francesco Pannofino – nel ruolo che già fu del rimpianto Ennio Fantastichini – è un ottimo Vincenzo, capofamiglia di casa Cantone, alternativamente severo e macchiettistico; Paola Minaccioni (che già recitò nel film nei panni della domestica) è straordinaria nel ruolo della madre Stefania, mentre regge meno il confronto con l’altrettanto rimpianta Ilaria Occhini, Caterina Vertova, nel ruolo più bello della storia, quello della nonna, la “mina vagante” per eccellenza, cui sono affidati dei monologhi bellissimi, sospesi a metà tra rimpianto e nostalgia, e da cui emergono i messaggi, la morale ed i moniti più significativi che il regista ha inteso trasmettere.

A dieci anni dalla sua uscita cinematografica, Mine Vaganti è ancora straordinariamente attuale e potente, e, anche in questa sua nuova veste teatrale, conserva tutta la sua grazia, senza scolorire, mantenendo intatta la sua perfetta alchimia di leggerezza e profondità.



Mine Vaganti sarà in scena:

05/03/2020 - 08/03/2020 - Salerno, Teatro Giuseppe Verdi
10/03/2020 - 11/03/2020 - Vicenza, Teatro Comunale
13/03/2020 - 15/03/2020 - Fano (PU), Teatro Della Fortuna
17/03/2020 - 22/03/2020 - Verona, Teatro Nuovo
24/03/2020 - 29/03/2020 - Mestre (VE), Teatro Toniolo
31/03/2020 - 04/04/2020 – Firenze, Teatro Della Pergola
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 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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