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Morire di carcere

Autore: Ester Annetta
Il Dipartimento degli Affari Penitenziari del Ministero della Difesa raccoglie annualmente sotto la generica dicitura “Eventi critici negli istituti penitenziari” il numero dei decessi che si verificano in carcere.

Si può facilmente reperire la relativa tabella - che racchiude tali dati a partire dal 1992 fino al 2022 - proprio sul sito del Ministero. Si noterà che c’è un’apposita colonna dedicata esclusivamente ai suicidi, in contrapposto ad un’altra che riporta invece i decessi per cause naturali.

Ciò che subito balzerà agli occhi è che il numero dei primi è progressivamente andato aumentando col passare degli anni (salvo sporadiche eccezioni), benché, in termini assoluti, si sia sempre mantenuto notevolmente al di sotto del numero dei secondi. Fino allo scorso anno, quando invece il numero dei suicidi è risultato inferiore a quello degli altri decessi soltanto di tre unità - 84 contro 87 – ottenendo tra l’altro un primato assoluto nella storia dell’intera statistica, che unicamente nel 2001 aveva segnato la cifra record di 69 casi.

Lo conferma il XIX rapporto sulle condizioni di detenzione presentato dall’associazione Antigone nei giorni scorsi, col titolo “È vietata la tortura”, che ricorda tra l’altro che dall’inizio di quest’anno sono già 23 i suicidi avvenuti in carcere.

Ma non è tutto, giacché il rapporto conferma pure un’altra realtà altrettanto nota del mondo carcerario: quella del sovraffollamento, che ha anch’essa toccato il suo tetto massimo.

Un anno fa il tasso effettivo di affollamento delle carceri italiane era del 112%; ora è del 119%, il che vuol dire che c’è un 20% di detenuti che ha una sistemazione inadeguata. Tradotto in numeri, al 30 aprile nelle nostre carceri c’erano 56.674 presenze, ossia 5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare.

Soprattutto in Lombardia, Puglia e Friuli-Venezia Giulia si registra un tasso di affollamento superiore alla media nazionale.

I tribunali di sorveglianza italiani solo nel 2022, hanno accolto 4.514 ricorsi di altrettante persone detenute (o ex detenute), che durante la loro detenzione hanno subito trattamenti inumani e degradanti, legati soprattutto alla mancanza di spazi. Vi si contesta la violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (che appunto proibisce di sottoporre i detenuti a “trattamenti inumani e degradanti”), di cui la Corte di Strasburgo aveva già riconosciuto colpevole l’Italia in una pronuncia del 2009 (caso Sulejmanovic c. Italia -n° 22635/03), dichiarando espressamente che un detenuto deve avere a disposizione almeno 3,5 mq di spazio e deve poter trascorrere fuori dalla cella almeno 6 ore al giorno. In caso contrario è considerato vittima di “trattamento inumano e degradante” e ha perciò diritto a un risarcimento economico.

Ma quasi nessun carcere italiano rispetta questi criteri: in celle di 6 mq arrivano ad esserci fino a tre persone e le “ore d’aria” sono conseguentemente ridotte a quattro se non addirittura a due per consentire la turnazione dei detenuti.

Facendo un confronto con gli altri paesi europei, pare che soltanto a Cipro e in Romania il tasso di sovraffollamento sia peggiore di quello italiano.

E dunque si continua a morire, col dubbio che tanti decessi ‘per cause naturali’ o ‘per cause non accertate’ (come sinteticamente vengono liquidati alcuni) tali non siano affatto e che, anzi, persino i detenuti suicidi siano stati in realtà suicidati. Lo dimostrano le rocambolesche modalità con cui certe morti vengono spesso inscenate, o gli evidenti segni di percosse, le lesioni di organi interni, le ferite ritrovate sul corpo di un preteso suicida, incompatibili col suo gesto.

Tuttavia, di suicidi reali ce ne sono comunque tanti, e se l’invivibilità oggettiva delle carceri può esserne causa, non è decisamente l’unica. Vi si colloca accanto anche quella soggettiva, percepita sottopelle, a livello interiore e tradotta sovente in disperazione, perdita di speranza.

Ad uccidersi è chi conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità; chi sa che, in attesa di un processo che magari ne deciderà persino l’innocenza, ha perso la prospettiva di riottenere la rispettabilità persa e sa che non si libererà mai dal marchio del sospetto; chi quel processo lo attende per mesi o anni; chi sa che il tempo in carcere è un tempo vuoto, senza attività utili, senza distrazioni, sgranato lentamente fino all’ultimo giorno di pena; chi sa che non c’è spazio nella società ‘di fuori’ per poter tornare a vivere normalmente una volta uscito dal carcere; chi sa che ‘lì fuori’ l’attende una vita ai margini, di solitudine, di sofferenza fisica e psicologica e che la sola possibilità residua è tornare a delinquere.

Ed è lo squilibrio che nasce da una tale consapevolezza a guidarne dunque le azioni. Uno squilibrio tutto emozionale che ‘per convenienza’, si tende a far passare per squilibrio mentale, onde giustificare misure estreme quali l’isolamento o il ricovero in psichiatria, con il conseguente utilizzo di opinabili ‘dissuasori’, quali sedativi e psicofarmaci.

Servirebbe invece prevenire, riempire quei vuoti che ci sono a monte per evitare che a tanta disperazione consegua ‘naturalmente’ la morte.

Le carceri sono il luogo in cui lo Stato rinchiude chi, per legge, viene privato della sua libertà. Da quel momento è dunque Esso che diviene responsabile, in teoria, del suo futuro reinserimento nella società, ma, più in concreto, della sua sopravvivenza o della sua morte.

Quali sono allora le possibili soluzioni per impedire che un detenuto si tolga la vita?

Certamente – e in primo luogo – la tutela della sua dignità sociale in quel tempo ‘sospeso’ che intercorre tra la carcerazione preventiva ed il processo, per impedire che l’immagine e la vita di chi “non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”’ - come sancito dall’art. 27 della nostra Costituzione - sia saccheggiata e distrutta.

In secondo luogo, la messa in campo di ogni strumento necessario a rendere reale ed effettiva la “rieducazione del condannato”, che lo stesso articolo 27 della Costituzione individua come funzione della pena. Ed è evidente che ciò passa anche attraverso l’attivazione di lavoratori, corsi di formazione, momenti di socialità, possibili anche nelle carceri più fatiscenti ed affollate, senza che tali condizioni siano invece usate come pretesto per giustificare l’inerzia.

Infine, agire efficacemente per consentire il reinserimento del detenuto nella società al termine della pena. La legge sull’ordinamento penitenziario ha istituito i Consigli di aiuto sociale (art. 74 L. 26 luglio 1975, n. 354) con compiti di assistenza penitenziaria e post-penitenziaria (art. 75) a tanto finalizzati. Eppure, di fatto, non pare siano mai intervenuti; sono, viceversa, le organizzazioni di volontariato a prendersi cura dei detenuti nel dopo carcere, ed è chiaro che laddove esse non arrivano, laddove manchi qualunque supporto, chi è appena uscito dalla detenzione è lasciato in balia di se stesso e perciò, con ogni probabilità, se non sarà accolto dal mondo ‘di fuori’, prima o poi reitererà condotte che lo riporteranno ‘dentro’, ancora e ancora, finché non ne avrà abbastanza.

E allora il suo destino sarà quello di diventare un numero collocato in una delle due colonne degli “eventi critici”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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