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Peppino

Autore: Ester Annetta
Il giorno in cui morì, il 9 maggio 1978, un altro fatto di cronaca – l’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse – catalizzò l’attenzione mediatica. Del resto, se il nome dello statista, uomo dalla grande visibilità politica, era noto a tutti, quello di Peppino Impastato, giornalista e attivista siciliano, oltre i confini della sua terra era perlopiù sconosciuto.

Non solo: la morte di Peppino non apparve subito per ciò che realmente era – un delitto commesso per mano mafiosa su commissione di Gaetano (Tano) Badalamenti– ma passò inizialmente per fallito attentato terroristico, secondo un preciso disegno di Cosa nostra e di una serie di depistaggi istituzionali. Il suo corpo venne difatti trovato sui binari della tratta ferroviaria Palermo-Trapani, accanto ad una carica di tritolo, cosicché anche la sua immagine di personaggio scomodo e irriverente sarebbe stata distrutta.

Il caso venne poi derubricato a suicidio e archiviato e ci vollero la lotta indefessa del fratello e della madre di Peppino e cinque inchieste per arrivare alla verità sulla sua morte ma soprattutto per riconoscere il valore del suo coraggio e del suo sacrificio, in un tempo e in un luogo in cui il potere della mafia faceva davvero paura.

Non ricorre quest’anno un anniversario da “cifra tonda”, di quelli che richiedono esaltazioni commemorative; è uno dei tanti, caduto peraltro in esordio di settimana e anche perciò, forse, onorato con una menzione fugace.

Vale perciò la pena di riabilitarlo, come conviene che sia per ogni ricorrenza che sottolinei quanto certe azioni, persone e idee non sono rese meno attuali dal trascorrere del tempo e restano anzi modelli di condotta utili ad indicare la direzione verso cui andrebbe improntato l’impegno a ripulire le opacità delle nostre istituzioni.

Peppino aveva solo trent’anni quando morì, ma di lotte ne aveva già sostenute abbastanza.

La prima - la più importante e decisiva probabilmente – l’aveva combattuta proprio in casa sua, quando aveva deciso di prendere le distanze da quelle “regole” e da quell’impronta che l’avrebbero voluto continuatore della linea di famiglia: mafioso era suo padre e così i suoi zii e cugini. Quel mondo però Peppino lo disprezzava, lo rinnegava, lo denunciava. E perciò a vent’anni fu messo alla porta dal padre, non senza aver urtato la sensibilità del boss Badalamenti, che in quella sua ribellione vedeva un affronto e, prima ancora, uno smacco.

Il resto delle sue battaglie l’aveva poi condotto attraverso le parole - pesanti, pungenti, affilate ed irridenti -: prima fondando la testata “L’idea socialista” con cui, raccogliendo materiale e prove sull’attività di Cosa nostra, si prefiggeva di voler scrivere “che la mafia è una montagna di merda! noi ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi! prima di abituarci alle loro facce! prima di non accorgerci più di niente!”.

Poi, fondando a Terrasini Radio Aut, l’emittente indipendente “di controinformazione” da cui ogni venerdì sera, con la trasmissione “Onda Pazza a Mafiopoli” sbeffeggiava politici e capi mafiosi, in primis lo stesso Badalamenti ironicamente ribattezzato “Tano Seduto”.

Peppino aveva finito perciò per diventare non solo fastidioso ma anche pericoloso: quella formula così irriverente con cui trattava la mafia, ne ridicolizzava il potere e ne minava gli affari, peraltro incitando la Sicilia omertosa a non avere paura, a ribellarsi, a denunciare, perché “la mafia uccide. Il silenzio pure”.

Quella voce, perciò, doveva essere messa a tacere; quel giovane così irrispettoso, invadente e coraggioso doveva essere screditato. E doveva succedere prima che fosse troppo tardi, che acquisisse ulteriore peso assumendo anche un incarico politico, com’era possibile che accadesse con le elezioni provinciali - dov’era candidato nella lista di Democrazia Proletaria - che si sarebbero svolte di lì a poco.

Ma come ebbe ad osservare suo fratello Giovanni, “I mafiosi hanno commesso un errore perché mettendolo a tacere, hanno amplificato la sua voce”.

Peppino è diventato – insieme ai tanti che la mafia ha creduto di seppellire – uno sprone a rifiutare i condizionamenti criminali. La sua morte è diventata un inno alla libertà, l’estremo sacrificio attraverso cui riconoscere il valore di chi si oppone e si ribella ai guasti di un sistema in cui, passando attraverso la mafia, anche le istituzioni vengono contaminate; un esempio di coerenza e dignità che ha dimostrato quanto sia difficile e faticoso il percorso verso la verità.

Un bellissimo film di diversi anni fa ha avuto il pregio di riepilogare la parabola di Peppino nei “cento passi” che separavano la sua casa da quella di Tano Badalamenti: un tragitto che è enorme, ove lo si consideri metafora della distanza che si frappone tra la condotta ispirata al potere e quella guidata dalla giustizia; ma, al tempo stesso, infinitamente piccolo se diventa campo di battaglia d’una rivoluzione in cui il silenzio e l’omertà possono trasformarsi in coraggio e denuncia.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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