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Storia, tango, calcio nella “tanghedia” con Neri Marcorè

Autore: Ester Annetta
Ci sono pagine di storia che, benché appartengano ad altre latitudini, hanno segnato così profondamente i tempi e le epoche che meritano d’essere conosciute anche in altre terre e da generazioni successive. Tanto più quando si tratta di vicende che hanno replicato altrove violenze ed orrori già noti, abbigliandoli sott’altra veste, connotandoli di altre motivazioni.

La storia argentina della dittatura militare di Jorge Videla e quella cilena della dittatura di Augusto Pinochet sono tra quelle pagine.

Le racconta Neri Marcorè, insieme ad Ugo Dighero e Rosanna Naddeo, in “Tango del calcio di rigore” - uno spettacolo diretto da Giorgio Gallione, regista e direttore artistico del Teatro dell'Archivolto di Genova – utilizzando storie di calcio attraverso le quali ricostruisce un contesto storico da cui emerge il peso che lo sport ha avuto nelle vicende politiche e la strumentalizzazione che ne è stata fatta a fini propagandistici.

Il calcio di rigore cui fa riferimento il titolo è quello narrato da Osvaldo Soriano, giornalista e scrittore argentino, nella raccolta di racconti “Futbol: storie di calcio”. È la storia dell’Estrella Polar, una squadretta di infimo ordine che non vinceva mai e che, quando nel ’58 improvvisamente cominciò a vincere, dovette affrontare non solo lo scontro con la favorita, il Deportivo Belgrano, ma anche le aspettative della sua tifoseria. L’arbitro diede un rigore al Deportivo – che perdeva 1 a 2 – all’88mo minuto. Ne conseguì una rissa in campo che si allargò fino alla tifoseria e si protrasse fino a tarda notte. Così fu deciso che il rigore dovesse essere battuto la domenica successiva. El Gato Diaz, il portiere 40enne dell’Estrella, avrebbe avuto la responsabilità di parare quel rigore, solo, in uno stadio vuoto, davanti a Constante Gauna, il capocannoniere del Deportivo.

È questa solo una delle vicende attraverso cui si srotola il dramma, che è costruito come una sequenza di episodi raccontati da diverse voci narranti ed intervallati da brani musicali di Julio Sosa e Astor Piazzolla, tra gli altri.

Filo conduttore sono i ricordi di un uomo che, da dodicenne, assistette al mondiale del 1978, quello che, nella finale del 25 giugno, all’Estadio Monumental di Buenos Aires, vide l’Olanda sfidare l’Argentina.

Fuori dallo stadio c’era l’orrore: nelle stanze della morte gli oppositori del regime venivano torturati; gli aerei compivano i loro voli della morte per scaraventarne altri nell’oceano da un’altezza tale da rendere la superficie dell’acqua dura come l’acciaio; le madri di Plaza de Mayo manifestavano per il loro figli desaparecidos.

Quella partita doveva essere vinta ad ogni costo, perché serviva a distrarre la popolazione, a nascondere una realtà fatta di violenza e dolore. Il calcio veniva dunque impiegato dal potere come strumento di propaganda politica, il “panem et circenses” di romana memoria e, al tempo stesso, come subdolo mezzo di oppressione.

L’ingenuo bambino d’allora, ormai adulto ha infine compreso l’inganno e in un continuo susseguirsi e confondersi di ricordi e realtà, di storie e leggende, cerca di estrarre il senso ed il contro-senso di tutto ciò che è stato.

Ci sono momenti lirici potentissimi, in cui la sofferenza narrata la si può quasi sentire addosso: è il caso del monologo di Rosanna Naddeo che dà voce alle madri di Piazza de Mayo, raccontando come nacque la protesta di quelle donne coraggiose, il cui numero cresceva di giorno in giorno e si muovevano in circolo per beffare il divieto imposto dal regime di stazionare per più di tre minuti in un luogo pubblico. Parla, mentre dietro di lei calano delle cornici che mostrano le foto sgranate di quei figli scomparsi di madri che ancora non smettono di cercarli. E il canto che intona alla fine, “Gracias à la vida”, è un picco d’emozione incontenibile.

È, ancora, il caso del monologo di Ugo Dighero, che riparte da un altro lembo di Sudamerica, dove il calcio fu altrettanto impiegato come strumento politico: il racconto è quello di Francisco Valdes, capitano del Cile, che durante le qualificazioni per i mondiali in Germania Ovest del 1974, fu costretto dai militari di Pinochet a tirare a porta vuota, perché l’Unione Sovietica aveva boicottato quella partita non presentandosi allo stadio. Il dittatore aveva infatti decretato che la partita fosse comunque giocata e Valdes, incapace di ribellarsi, aveva dovuto segnare un goal contro un avversario invisibile. Di quel peso che gli opprime la coscienza sente ora di doversi liberare, a distanza di tempo, e lo fa con una lettera molto toccante, sulla tomba di Pablo Neruda, il cui funerale era stato anche uno dei primi momenti di opposizione al regime di Pinochet.

E di Neruda sono i bellissimi versi scritti all’indomani del golpe cileno dell’11 settembre del 1973, che vide la morte di Salvator Allende e la presa di potere di Pinochet. A recitarli è Neri Marcorè: “E arrivò il giorno in cui / i macellai devastarono il paese. / Iniziò così una storia di supplizi / i figli legati furono e feriti / arsi furono e gettati a mare / morsi furono e interrati / finché furono solo ossa / e subito venne la cenere e il sangue”.

Infine c’è il racconto di Alvaro Ortega, l’arbitro colombiano che “commise l’errore” di annullare un goal all’Indipendente Medellin, la squadra dei trafficanti di cocaina, economicamente sostenuta da Pablo Escobar Gaviria, il narcotrafficante più famoso della storia.

La storia rivive dunque sul palcoscenico attraverso racconti di calcio: una formula che non è del tutto nuova, come ha già più volte efficacemente sperimentato Federico Buffa.

La novità di questo dramma è però l’amalgama tra i suoi diversi registri: la musica (il tango), la tragedia e la commedia, che gli sono valsi l’etichetta di “tanghedia”.

È, ad ogni modo, uno spettacolo affascinante, da cui si resta toccati, e che suscita un bisogno di conoscenza storica più approfondita per vicende di cui spesso possediamo solo brandelli di informazioni.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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