In materia di contestazioni sulla residenza delle società all’estero l’evoluzione giurisprudenziale non ha sempre dato conto di completa uniformità. Tuttavia, almeno di recente, la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi sul tema del “risparmio fiscale” derivante dalla fittizia localizzazione all’estero, con pronunce tra loro non dissimili.
L’
esterovestizione societaria risulta tematica indefettibilmente connessa alla previsione di cui all’
art. 73, comma 5-bis del Tuir, che stabilisce una
presunzione (relativa) di residenza nel territorio italiano per le entità estere che:
- 1) da un lato, controllano civilisticamente (ex art. 2359, comma 1 del codice civile) società/enti residenti in Italia;
- 2) dall’altro, in alternativa
- sono controllate (anche indirettamente, sempre a livello civilistico) da soggetti residenti in Italia,
- sono amministrate da un organo gestionale composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.
Si tratta di
presupposti che devono entrambi essere presenti ai fini dell’operatività della presunzione richiamata, come riferito sia dalla prassi che della giurisprudenza (risposta a interpello n. 27 del 17/01/2022 e CTP Treviso n. 91/2/12 del 16/10/2012 rispettivamente).
Sull’esterovestizione si sono sviluppati nel tempo orientamenti, anche in parte contrastanti, della giurisprudenza di legittimità: uno dei temi oggetto di simile andamento altalenante
è quello delle costruzioni di puro artificio (
L’accertamento dell’esterovestizione e le costruzioni di puro artificio: un dibattito lungo una vita - Fiscal Focus - A cura di Antonio Gigliotti (fiscal-focus.it)), che ha visto pronunce che valorizzavano, innanzitutto, il fatto che – a prescindere da ulteriori elementi di fatto – assume rilevanza la circostanza per cui l’entità estera non rappresenti uno schermo (vuoto) solamente finalizzato al risparmio fiscale (Cassazione n. 33234 del 21/12/2018 e n 2869 del 07/02/2013). In altri casi, invece, la Suprema Corte ha assunto posizioni diverse, assumendo che risulta sufficiente il radicarsi dei presupposti della residenza in Italia – ad esempio, in presenza della sede dell’amministrazione – al fine di qualificare nello Stato la residenza (Cassazione n. 13 del 04/01/2022, n. 15424 del 03/06/2021, n. 6476 del 09/03/2021 e n. 16697 del 21/06/2019). Aderendo maggiormente, in quest’ultimo caso, al dato letterale ma con un’interpretazione della norma forse meno attenta rispetto alla vicenda complessiva.
Altro ambito di interesse è poi quello del
risparmio fiscale derivante dalla localizzazione all’estero, rispetto al quale gli Ermellini si sono invece espressi, in particolare di recente, in maniera sostanzialmente conforme. Ciò, nello specifico, a partire dalla considerazione per cui è l’ente impositore il soggetto che risulta tenuto a dare prova del fatto che la costruzione societaria ha precisamente la finalità (elusiva) relativa al conseguimento di un vantaggio fiscale, come riportato ad esempio da
Cassazione n. 4463 del 11/02/2022. Pronuncia in cui una holding situata in Lussemburgo si vedeva contestata la residenza estera senza, però, che l’autorità fiscale avesse individuato il beneficio impositivo sotteso a tale asserita fittizia localizzazione – peraltro in presenza di
“elementi sporadici e discontinui” relativamente alla documentazione che proverebbe la direzione amministrativa della holding da parte della sede italiana.
Vi è poi l’ordinanza di
Cassazione n. 8297del 15/03/2022, nella quale i giudici hanno affermato, come avvenuto in passato, che l’esterovestizione si verifica nel caso in cui la società costituisca una costruzione di puro artificio (carente di sostanza economica), circostanza che nel caso in esame non si verificava nonostante l’effettuazione di servizi di carattere amministrativo nel territorio italiano. Vi erano infatti ulteriori elementi sintomatici della concreta localizzazione all’estero, il tutto in linea con i principi, di matrice unionale, secondo cui risulta sempre possibile optare per configurazioni negoziali in grado di ridurre il carico impositivo; quanto detto, chiaramente, con l’unico limite della genuinità della costruzione, dotata quindi di
“effettività economica” (sentenza C-196/04 del 12/09/2006 – Cadbury Schweppes).
Vengono in proposito richiamate ulteriori pronunce della Corte di Giustizia UE, laddove si è sostenuto che il concetto di “pratica abusiva” necessita, per forza di cose, che il risultato ottenuto sia il vantaggio fiscale, in particolare quello:
- la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme;
- che configura, a partire da un insieme di elementi oggettivi, lo scopo essenziale dell’operazione (sentenza C-419/14 del 17/12/2015 – W. Kft–punto 36).
Occorre quindi esaminare, secondo la Cassazione, la singola fattispecie di interesse, in quanto una presunzione generale di frode e di abuso non può giustificare un atto impositivo che pregiudichi gli obiettivi di una direttiva, né tantomeno porre a rischio l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato dell’Unione Europea (sentenza C-6/16 del 07/09/2017 – E. e E. – punti 30-32). Va quindi accertato che il richiamato “scopo essenziale” di un’operazione sia precipuamente il vantaggio fiscale, dal momento che il contribuente può scegliere tra due operazioni con differente carico fiscale – non risultando obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, avendo, al contrario, tutto il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre l’imposizione.
Anche in questo caso, in ultima analisi, l’Agenzia delle Entrate non ha fornito adeguata prova del (illecito) risparmio fiscale ottenuto dal destinatario dell’atto di accertamento. Ciò in quanto, ad esito dell’esame della documentazione allegata al fascicolo processuale, il giudice di merito – regionale – ha escluso che essa avesse dimostrato l’esterovestizione della società, reputando, ancora una volta, che risultassero
“sporadiche e discontinue” le prove documentali invocate dall’Amministrazione finanziaria a riscontro della condotta elusiva della società.