29 marzo 2022

Gestione commissariale. Il c/c non è confiscabile

Cassazione penale, sentenza depositata il 28 marzo 2022

Autore: Paola Mauro
Nel caso di reati tributari commessi nell’interesse di una società, non è assoggettabile a confisca diretta la somma confluita dopo la commissione dell’illecito sul conto corrente della gestione commissariale.

È quanto emerge dalla lettura della sentenza n. 11086/2022 della Corte di Cassazione (Sez. III pen.), depositata il 28 marzo.

Il caso - L’indagato, nella sua qualità di amministratore “di fatto” di una società di capitali, è stato raggiunto da un provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, fino a concorrenza della somma di 4 mln di euro, disposto in relazione al delitto di omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione annuale di sostituto d’imposta ex art. 10-bis D.lgs. n. 74700 per le annualità 2017 e 2018.

Ebbene, il suddetto provvedimento ha trovato conferma definitiva in esito al giudizio di legittimità.

Ragioni della decisione - La Suprema Corte, analogamente al Tribunale, ha escluso la possibilità di applicare la confisca in via diretta e in via prioritaria a carico della società amministrata dal ricorrente – in quanto soggetto che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato -, non potendosi aggredire, nel caso di specie, il saldo attivo presente sul conto corrente della gestione commissariale al momento dell’adozione della misura reale.

I Massimi giudici esattamente hanno affermato che «il denaro che affluisce sul conto corrente successivamente alla commissione del reato (soprattutto se il c/c è diverso da quello della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio è stato commesso l’illecito da parte della persona fisica, trattandosi, nel caso di specie, di c/c acceso dalla gestione commissariale successivamente all’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, le cui somme costituiscono un acconto sul prezzo versato dal promissario acquirente di un primo compendio oggetto di cessione da parte della procedura, senza che sul c/c in questione risultino essere transitate somme derivanti dalla gestione anteriore allo stato di insolvenza), non può, come chiarito in più occasioni da questa Corte, costituire il profitto del reato tributario, rappresentato infatti dal risparmio di imposta conseguente all'omissione di versamento del quantum corrispondente». Né rileva la natura di bene fungibile propria del denaro, nella prospettiva ricostruttiva delle plurime decisioni delle Sezioni Unite (n. 10561/2014; n. 31617/2015; n. 42415/2021), per legittimarne la sequestrabilità in forma diretta.

Nel caso di specie, dunque, il Tribunale correttamente ha ritenuto – si legge in sentenza - «l’impossibilità della confisca diretta del profitto in capo alla persona giuridica (a fronte dell’incapienza di somme nei cc/cc della società e della insuscettibilità ad ablare la somma di 400.000 euro giacente sul c/c della gestione commissariale, in quanto denaro affluito successivamente alla commissione del reato e non derivante dalla gestione anteriore allo stato di insolvenza), ritenendo legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, disposto sui beni, per quanto qui rileva, dell’amministratore di fatto».

La Terza Sezione Penale del “Palazzaccio” ha aggiunto che, nel caso di reati tributari commessi da un amministratore di società di capitali, sia esso di diritto o di fatto, non essendo prevista la responsabilità della persona giuridica per il delitto in esame e la praticabilità nei confronti dell’ente della confisca per equivalente, il profitto è comunque incamerato dalla persona giuridica e la persona fisica che per essa ha agito, pur non avendo tratto alcun beneficio dalla condotta illecita, si trova comunque legittimamente esposta a subire la sanzione (la confisca per equivalente) per un vantaggio sì conseguito direttamente da altri (la persona giuridica), ma che comunque è anche mediatamente ad essa riferibile, considerato che, nel caso degli enti, l’amministratore, di diritto o di fatto, che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che avere operato proprio nell’interesse e a vantaggio dell’ente medesimo ed è quindi giuridicamente corretto che debba subire le conseguenze (penali e patrimoniali) derivanti dalla commissione di una condotta da egli materialmente posta in essere, conseguenze patrimoniali limitate al quantum di profitto derivante dalla commissione del reato tributario da lui commesso, senza porsi pertanto un problema di proporzionalità.

Condanna alle spese - In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’indagato con relativa condanna al pagamento delle spese processuali.
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