16 dicembre 2022

Ristretta base societaria: nullo l’avviso di accertamento al socio “estraneo” alla gestione

Autore: Giulio Bartoli
È nullo - e certamente illegittimo - l’avviso di accertamento basato esclusivamente sulla presunzione secondo la quale il maggior reddito accertato deve presumersi distribuito “in nero” ai soci, spiccato nei confronti del socio che dimostra essere totalmente estraneo alla gestione.

È questo il principio statuito dalla Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Reggio Emilia, sezione 1, con la sentenza n. 250/2022 depositata in data 7/12/2022 (Presidente e relatore: Montanari Marco).

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento emesso ai fini delle imposte dirette, sanzioni ed interessi, per l’anno di imposta 2015 nei confronti di un soggetto, che all’epoca dei fatti era socio per il 27% di una società di capitali.

Nei confronti della suddetta società era stato accertato, con precedente atto impositivo, un maggior reddito pari a oltre 350.000 €, conseguente all’ipotizzato utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti, e lo stesso era divenuto definitivo posto che la curatela - essendone stato dichiarato, medio tempore, il fallimento - non aveva ritenuto di procedere ad alcuna impugnazione.

Ad avviso dell’Ufficio, era certamente applicabile, nel caso di specie, trattandosi di società a ristretta base sociale, la presunzione di origine giurisprudenziale, secondo la quale il maggior reddito accertato in capo alla società deve presumersi distribuito in nero ai soci nello stesso anno in cui risulta accertato in capo all’ente giuridico.

Il ricorrente proponeva rituale ricorso deducendo, tra i vari motivi, l’assenza di prova circa la percezione di questo maggior reddito e la sua totale estraneità alla gestione societaria, la quale era in mano all’Amministratore unico. Ad avviso del ricorrente inoltre, l’atto era carente di motivazione, in quanto l’Ufficio non aveva fornito alcuna prova circa la distribuzione di tali utili occultati.

Il collegio accoglieva il ricorso, annullando l’atto impugnato, e condannando l’ufficio alle spese di lite.

Ad avviso del collegio, il ricorrente aveva approvato e dimostrato la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, principio questo fatto proprio dalla Cassazione, la quale afferma che “la prova contraria del contribuente è tradizionalmente ritenuta quella per cui gli utili non sono stati distribuiti per esempio perché reinvestiti, prova che il contribuente può fornire anche nel suo ruolo di titolare meramente formale delle quote ma estraneo di fatto alla gestione societaria, perché comunque il ruolo formale permette, se del caso di accedere ai libri sociali per acquisire elementi a tal fine. Tuttavia, come il contribuente sottolinea, si è sviluppato negli anni un ulteriore orientamento sulla prova contraria tale per cui la stessa può anche consistere nella dimostrazione del socio di essere stato estraneo alla gestione societaria ammettendo come prova liberatoria la dimostrazione della propria estraneità alla gestione conduzione societaria” (Cassazione, nn. 1932/2016, 17461/2017, 18042/2018).

Ciò posto, non poteva che affermarsi, nel caso di specie, come il ricorrente fosse rimasto estraneo alla gestione e dunque non possa ritenersi partecipe dell’ipotizzata spartizione del maggior reddito accertato in capo alla società.

Oltretutto, aggiungono i giudici emiliani, l’Agenzia delle Entrate non aveva fornito alcuna prova, neppure presuntiva, di come si fosse materialmente sviluppato tale ipotizzato flusso monetario attraverso il quale i maggiori utili societari sarebbero pervenuti ai soci.

Infatti, per dirsi effettivamente distribuito, tale maggior reddito doveva in qualche modo “passare” ai soci, eventualmente con un effettivo trasferimento finanziario, che doveva essere provato dall’Agenzia. Conseguendone logicamente che, infatti, la sola presenza del maggiore utile accettato in capo alla società non può determinare “magicamente” una materializzazione del medesimo nelle tasche dei soci.
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