Premessa – È legittimo il licenziamento del lavoratore che presta attività durante un’assenza per malattia. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15365/2014, facendo finalmente chiarezza sul particolare caso che da tempo interessa l’opinione pubblica.
Il caso – La controversia, in particolare, trae origine da un contenzioso instaurato tra un’impresa e un lavoratore (nel caso di specie un macellaio), che durante i giorni di malattia ha prestato attività presso un concorrente del proprio datore di lavoro. Il datore di lavoro, alla luce della situazione creatasi, aveva comminato una sanzione che a detta del lavoratore risulta sproporzionata rispetto al comportamento tenuto.
Sanzione e iter procedurale - A tal proposito, è bene ricordare che qualsiasi provvedimento disciplinare nei confronti dei propri dipendenti deve seguire un particolare iter procedurale , così come previsto dallo statuto dei lavoratori. In particolare, il datore di lavoro prima di comminare una sanzione dovrà contestare al lavoratore il fatto e dare allo stesso non meno di cinque giorni per poter presentare le proprie giustificazioni. Una volta esaurito il suddetto periodo, che può essere anche differente se previsto dal contratto collettivo applicato in azienda, il datore di lavoro potrà comminare il provvedimento disciplinare. Va da sé che, considerata la delicata procedura da seguire, il datore di lavoro deve stare ben attento alle scelte intraprese all’inizio dell’iter, in quanto saranno alla base di tutta la procedura, nonché gli eventuali tre gradi di giudizio successivi.
La sentenza – La Suprema Corte dà ragione all’impresa. Gli Ermellini, innanzitutto, evidenziano come il lavoratore, prestando attività durante il periodo di malattia, viola quanto previsto dal contratto collettivo applicato in azienda relativo alla violazione del dovere di non concorrenza. Chiaro è che a nulla rileva il fatto che l’attività svolta avviene con la caratteristiche tipiche del lavoratore autonomo o quelle da dipendente. Infine, a confermare la tesi della Cassazione vi è l’ulteriore aggravante rinvenuta nella “slealtà dimostrata dal dipendente che certamente non aveva rispettato in alcun modo i principi di correttezza e buona fede, svolgendo le stesse mansioni per terzi che aveva sostenuto di non poter svolgere per il datore di lavoro a causa di una malattia (di cui quindi era legittimo presumere l’insussistenza)”.
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