16 dicembre 2025

Licenziamento 2025: crisi del termine decadenziale, abuso della 104/92 e vizi del Patto di Prova

Lavoro & Previdenza n. 97 - 2025
Autore: Fabiano De Leonardis

L'anno giudiziario in corso si conferma prolifico di interventi nomofilattici e di legittimità costituzionale volti a ridefinire il perimetro applicativo e i limiti intrinseci della disciplina dei licenziamenti individuali. La Corte Costituzionale, con la Sentenza Cost. n. 111/2025, è nuovamente intervenuta sul nodo ermeneutico della tempistica impugnatoria in caso di incapacità naturale del lavoratore, rafforzando la tutela sostanziale a fronte del rigore decadenziale. Contestualmente, la Suprema Corte di Cassazione ha fornito due rilevanti chiarimenti ed in particolare: l' Ordinanza Cass. n. 5948/2025 affronta il cruciale tema dell'abuso dei permessi ex L. n. 104/1992, sanzionando il disallineamento funzionale del beneficio rispetto alla sua ratio assistenziale in ipotesi di ricovero h24; la Sentenza Cass. n. 24201/2025 ha cristallizzato l'effetto della nullità del patto di prova, equiparando il recesso ad nutum intimato in sua assenza all'ipotesi di licenziamento per insussistenza del fatto materiale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dal regime normativo di riferimento. Tali pronunce costituiscono un corpus essenziale per l'operatore del diritto del lavoro, delineando un quadro di garanzie e oneri probatori di stringente attualità.

Sentenza Cass. n. 24201 del 29 agosto 2025

La Sentenza n. 24201 del 29 agosto 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si configura come un intervento nomofilattico di primaria importanza, risolvendo in modo definitivo la quaestio iuris relativa al regime sanzionatorio applicabile al recesso intimato per asserito mancato superamento della prova, laddove la clausola stessa risulti affetta da nullità genetica o sia addirittura inesistente.

L’ art. 2096 c.c. statuisce che “Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro”. Il patto di prova rappresenta, in questo quadro, una clausola accessoria e facoltativa del contratto di lavoro, la cui valida stipulazione è subordinata ad substantiam a due requisiti imprescindibili, che ne definiscono la causa concreta e la funzione, ovvero l'adozione della forma scritta e l'indicazione specifica delle mansioni su cui deve vertere l'esperimento. Tali requisiti sono essenziali per permettere una valutazione reciproca del rapporto: per il datore, l'idoneità professionale del lavoratore; per il lavoratore, la convenienza del posto di lavoro. L'inosservanza di tali presupposti, che rende la clausola priva di causa o indeterminata, determina, per consolidato orientamento giurisprudenziale, la nullità dell'accordo di prova ai sensi dell'art. 1418 C.C., con la conseguente conversione immediata del rapporto in definitivo ab initio.
 

Il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte è perentorio: la nullità del patto di prova comporta l'automatica conversione dell'assunzione in definitiva ab initio, rendendo il rapporto di lavoro immediatamente stabile sin dalla sua costituzione. Di conseguenza, il recesso datoriale motivato dal mancato superamento della prova, in un contesto in cui la prova non è mai legalmente esistita, è ontologicamente privo di causa giustificatrice e deve essere qualificato come un licenziamento illegittimo per insussistenza del presupposto legittimante il recesso ad nutum. Tale assenza, ab origine, della legittimazione negoziale a recedere determina l'illegittimità stessa del licenziamento.

L'impatto più significativo di questa decisione si registra nel regime sanzionatorio per i rapporti soggetti al D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. Contratto a Tutele Crescenti). 

Il  Contratto a Tutele Crescenti (disciplinato dal D.Lgs. n. 23/2015) si applica ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015. Nello specifico, esso riguarda: i) i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a partire da tale data; ii) i lavoratori il cui contratto a tempo determinato o di apprendistato sia stato convertito a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015. Tale regime si applica a operai, impiegati e quadri, mentre i dirigenti ne restano esclusi. I lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, invece, mantengono il regime di tutela precedente previsto dall’art. 18 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), nel testo vigente prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015. In sintesi, per i lavoratori a Tutele Crescenti, il regime sanzionatorio progressivo è strutturato sulla netta separazione tra due tipi di tutela in caso di licenziamento illegittimo: i) Tutela Reintegratoria (o Reale), riservata alle ipotesi più gravi (come licenziamenti discriminatori o nulli, o casi di insussistenza del fatto particolarmente specifici) e consiste nel ripristino del rapporto di lavoro (reintegra nel posto) più un'indennità risarcitoria per il periodo intercorso tra il licenziamento e la reintegra; ii) Tutela Indennitaria (o Obbligatoria) applicata nella maggior parte dei casi di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo o soggettivo e consiste nella risoluzione definitiva del rapporto di lavoro con la sola condanna del datore a pagare un'indennità economica risarcitoria il cui importo cresce proporzionalmente all'anzianità di servizio del lavoratore.
La Cassazione ha escluso l'applicazione della mera tutela indennitaria prevista da tale decreto, optando per l'applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, come risultante dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 2024. Quest'ultima pronuncia, infatti, ha esteso la tutela reintegratoria attenuata (reintegrazione e indennità risarcitoria limitata) anche all'ipotesi di licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo (GMO) dichiarato illegittimo per insussistenza della ragione economica od organizzativa.

Riprendendo la sentenza in rassegna, la Cassazione, con la Sentenza n. 24201/2025, equipara il vizio genetico della clausola di prova e la conseguente assenza della giustificazione al recesso alle ipotesi più gravi di insussistenza ex art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015. Il mancato superamento di una prova inesistente è pertanto ricondotto all'insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso. In sintesi, i Giudici di legittimità statuiscono che il recesso disposto per il mancato superamento di un patto di prova geneticamente nullo integra un'ipotesi di licenziamento illegittimo per insussistenza della giustificazione, cui si applica la tutela reintegratoria attenuata. Questa decisione segna una svolta decisiva, adeguandosi ai principi costituzionali sull'effettività della tutela e imponendo al datore di lavoro una rigorosa verifica formale e sostanziale della clausola di prova, soprattutto per i rapporti soggetti a questo regime normativo. La Cassazione afferma pertanto il seguente principio di diritto: “Il mancato superamento di una prova che non esiste è … una chiara ipotesi di insussistenza del fatto materiale, perché manca l'esistenza del fatto posto a fondamento della ragione giustificatrice e, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale … (n.d.r. n. 128/2024), la tutela in tale ipotesi applicabile non potrà che essere quella della reintegrazione cd. attenuata …”.

Ordinanza Cass 06 marzo 2025 n. 5948

L' Ordinanza n. 5948 del 6 marzo 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si innesta nel consolidato solco giurisprudenziale volto a stigmatizzare l'utilizzo improprio dei permessi per l'assistenza a familiare disabile grave, delineando con maggiore precisione la linea di confine tra l'esercizio legittimo del diritto e la condotta fraudolenta idonea a ledere il vincolo fiduciario e a giustificare il licenziamento per giusta causa. 

La ratio della disciplina dettata dall' art. 33, commi 3 e 6, della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, è quella di garantire al disabile grave un'assistenza continuativa e personalizzata, assicurata dal familiare lavoratore nei momenti in cui tale assistenza non può essere altrimenti garantita. 
 

La decisione della Suprema Corte ribadisce che l'utilizzo dei permessi nei giorni in cui il familiare assistito si trovi ricoverato a tempo pieno presso una struttura sanitaria o assistenziale in grado di assicurare una valida e completa assistenza alla persona (id est, ricovero h24), integra un abuso del diritto e una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., poiché si realizza un disallineamento funzionale tra la concessione del beneficio previdenziale e la sua effettiva causa legale tipica. Nel caso di specie, il datore di lavoro ha verificato che il congiunto si trovava in una RSA in modo stabile e permanente e nella struttura era assistito dal personale notte e giorno; in tal caso,  trattasi infatti di un “ricovero del familiare disabile presso una struttura (residenza per persone anziane autosufficienti e non autosufficienti) del tutto assimilabile ad una struttura ospedaliera trattandosi di struttura che assicura assistenza sanitaria continuativa (come da accertamento di fatto, insindacabile in questa sede di legittimità, nonché in ossequio ad orientamento già espresso da questa Corte, cfr. Cass. n. 21416 del 2019); tale circostanza, come richiede l'incipit del comma 3 dell'art. 33 della legge n. 104 del 1999, esclude la sussistenza del diritto ai permessi giornalieri retribuiti”.

In codeste situazioni, l'assenza del lavoratore dal posto di lavoro non risulta più motivata dall'imprescindibile necessità di fornire un'assistenza che altrimenti verrebbe meno, ma si traduce nell'utilizzo strumentale di un periodo di assenza retribuita per finalità estranee a quelle assistenziali, salvo che il dipendente non dimostri la necessità di prestare assistenza per esigenze particolari non garantite dalla struttura sanitaria (ad esempio, assistenza notturna non coperta o necessità di svolgere pratiche burocratiche strettamente correlate al ricovero in quel preciso giorno). 

L'Ordinanza, confermando la sanzione espulsiva, sottolinea come tale condotta, oltre a ledere l'interesse pubblico alla corretta fruizione delle risorse previdenziali, comprometta in modo irreversibile il patto fiduciario con il datore di lavoro, configurando la giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. Ciò deriva dalla trasgressione dell'obbligo di fedeltà e dal grave inadempimento contrattuale, in quanto il tempo lavorativo sottratto è stato impiegato per fini diversi da quelli dichiarati, arrecando un danno alla produttività aziendale e alla lealtà che deve connotare lo svolgimento del rapporto.

Sentenza Corte Cost. n. 111/ 2025

La Sentenza n. 111 del 18 luglio 2025 della Corte Costituzionale costituisce un intervento additivo di elevato impatto sistematico, finalizzato a rimodulare la disciplina decadenziale in materia di licenziamento in funzione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e di tutela della persona in condizione di vulnerabilità. La pronuncia ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui non prevede che, se al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento o in pendenza del termine di sessanta giorni previsto per la sua impugnazione, anche extragiudiziale, il lavoratore versi in condizione di incapacità di intendere o di volere, non opera l’onere della previa impugnazione, anche extragiudiziale, e il licenziamento può essere impugnato entro il complessivo termine di decadenza di duecentoquaranta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, mediante il deposito del ricorso, anche cautelare, o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato”.

l’ art. 6 della legge n. 604 del 1966 statuisce, ai primi due commi, che “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”. Vengono pertanto previsti due termini per contestare il licenziamento: il primo, di 60 giorni, decorre dalla comunicazione al lavoratore del licenziamento, e in questo caso l’impugnazione, per evitare la decadenza, può avvenire anche in forma extragiudiziale; il secondo termine, di altri 180 giorni, entro il quale lo stesso lavoratore deve dare seguito agli intendimenti manifestati ricorrendo in giudizio.
 

La Corte costituzionale ha infatti rilevato che l’onere dell’impugnazione dell’atto datoriale entro il termine breve dei 60 giorni può rappresentare un ostacolo insormontabile alla tutela giurisdizionale nei casi in cui il lavoratore, a causa di una condizione morbosa, sia materialmente impedito nel comprendere il significato del licenziamento e, quindi, nel manifestare la necessaria volontà di autotutela. Tale applicazione letterale e rigida del termine breve, prescindendo dallo stato di incapacità, determina una lesione irragionevole e sproporzionata del diritto di difesa (ex art. 24 Cost.), del principio di uguaglianza (ex art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (ex art. 4 Cost.).

La soluzione adottata dalla Consulta non è stata la semplice sospensione della decorrenza del termine breve, bensì l'introduzione di una specifica eccezione al meccanismo decadenziale: per le persone che versino in simili situazioni patologiche, la decadenza non si compie, a condizione che l'impugnazione sia comunque effettuata entro il termine massimo e finale di duecentoquaranta giorni dalla comunicazione del recesso. Questo nuovo termine, pari alla sommatoria tra i 60 giorni originari non più applicabili e i successivi 180 giorni per l'azione in giudizio, riconosce al lavoratore vulnerabile la possibilità di ricorrere in giudizio (mediante deposito del ricorso, anche cautelare, o comunicazione della richiesta di conciliazione/arbitrato, come previsto dal D.L. n. 112/2008 convertito). La Sentenza, dunque, opera un essenziale temperamento che bilancia la fondamentale esigenza di certezza del diritto e di stabilizzazione dei rapporti di lavoro con l'inderogabile necessità di garantire la piena tutela sostanziale di soggetti in condizione di oggettiva minorazione volitiva e intellettiva.

Per l'operatore del diritto, la pronuncia impone un onere probatorio rigoroso e inequivocabile in capo al lavoratore. Sarà necessario dimostrare in modo puntuale la sussistenza della condizione di incapacità naturale, che può consistere anche in una infermità transitoria, e soprattutto la sua puntuale coincidenza temporale con il momento della ricezione del recesso e con la scadenza del termine breve di sessanta giorni, trattandosi di un presupposto che opera ex post per paralizzare l'effetto estintivo della decadenza altrimenti già maturata.

Caso

L’azienda Alfa S.p.A. assume il Dott. Caio in data 01/02/2025 per svolgere mansioni di Responsabile Amministrativo in un rapporto soggetto al D.Lgs. n. 23/2015, prevedendo un patto di prova della durata di sei mesi; tuttavia, la correlata clausola contrattuale non specifica i compiti concreti né gli obiettivi professionali da raggiungere durante tale periodo. 

In data 01/07/2025, l’azienda comunica il licenziamento al Dott. Caio, motivandolo con il "mancato superamento del periodo di prova". Il Dott. Caio riceve la lettera, ma a causa di un grave stato morboso accertato da apposita documentazione medica, si trova, al momento della ricezione dell’atto datoriale e fino al 10/09/2025, in uno stato di incapacità naturale transitoria. Il legale del Dott. Caio deve quindi affrontare due profili di illegittimità del licenziamento, facendo leva sulle recenti pronunce: 

in primo luogo, si eccepisce la nullità del Patto di Prova (in linea con la Sentenza Cass. n. 24201/2025), poiché il patto stipulato è nullo per violazione del requisito della specificità delle mansioni; tale nullità comporta che l'assunzione è stata definitiva ab initio e di conseguenza, il recesso motivato dal mancato superamento della prova si fonda su un presupposto insussistente che, per equiparazione, rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, prevedendo la tutela reintegratoria attenuata (reintegrazione e indennità risarcitoria limitata);
in secondo luogo, riguardo al termine decadenziale, l'impugnazione stragiudiziale (il cui termine ordinario di sessanta giorni sarebbe scaduto il 30/08/2025) non si è compiuta in ragione dell'incapacità naturale accertata del Dott. Caio che ha reso oggettivamente impossibile l'esercizio del diritto di impugnazione, in conformità con la Sentenza Corte Cost. n. 111/2025. Pertanto, il legale può procedere all'impugnazione anche dopo il recupero della capacità da parte del suo assistito, purché il deposito del ricorso giudiziale avvenga entro il termine finale di duecentoquaranta giorni dalla data di ricezione del licenziamento. 
In conclusione, il licenziamento sarà dichiarato illegittimo per nullità del patto di prova, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata, e l'azione di Caio risulterà tempestiva grazie all'intervento della Consulta, che ha garantito l'effettività della tutela in condizione di vulnerabilità..
 

L'esperto

Qual è la ragione giuridica sostanziale per cui il recesso ad nutum intimato in assenza di un patto di prova valido non produce l'effetto di mera tutela indennitaria, ma può condurre alla tutela reintegratoria nel regime del D.Lgs. n. 23/2015?

La ragione sostanziale risiede nella qualificazione radicale del vizio. La nullità del patto di prova (per difetto di forma ad substantiam o di specificità delle mansioni) determina la conversione automatica del rapporto in contratto a tempo indeterminato e definitivo ex tunc (fin dall'inizio), eliminando ab origine la causa giustificatrice legale del recesso ad nutum. Conseguentemente, il licenziamento motivato dal "mancato superamento della prova" è considerato dalla giurisprudenza, come ribadito dalla Cass. n. 24201/2025, fondato su un fatto materiale insussistente. Tale vizio è sanzionato con la tutela reintegratoria attenuata ai sensi dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, poiché l'insussistenza della prova equivale all'assenza ontologica del fatto contestato, ipotesi più grave della mera mancanza di giustificato motivo.

In quale specifico momento la fruizione dei permessi ex L. n. 104/1992, in presenza di ricovero del familiare, trasmoda da legittimo esercizio di un diritto a abuso del diritto meritevole di sanzione espulsiva per giusta causa?

Risposta: L'abuso del diritto si configura quando l'utilizzo del beneficio si discosta dalla sua causa legale tipica, che è quella di garantire l'assistenza diretta e continuativa al familiare disabile. La Cass. n. 5948/2025 chiarisce che il momento di trasmodazione si verifica quando il ricovero del familiare in una struttura assicura già l'assistenza completa (tipicamente h24), rendendo non più essenziale il contributo assistenziale del lavoratore in quel preciso arco temporale. L'assenza dal lavoro, in tal caso, è ritenuta strumentale a finalità diverse da quelle legali, integrando la violazione dei doveri di lealtà e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.) e la conseguente irrimediabile lesione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro.

Qual è l'effetto pragmatico e il limite temporale imposto dalla Corte Cost. n. 111/2025 sulla decorrenza del termine decadenziale di impugnazione per il lavoratore in stato di incapacità naturale?

L'effetto pragmatico fondamentale è che la decadenza non si compie per il lavoratore che provi la sua incapacità naturale al momento della ricezione del recesso o nel corso dei 60 giorni, paralizzando l'effetto estintivo del termine breve. Tuttavia, per esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, la pronuncia impone un limite temporale finale e improrogabile: l'impugnazione (giudiziale o extragiudiziale) deve essere comunque esperita entro il termine massimo di duecentoquaranta giorni dalla comunicazione del licenziamento. Questo bilanciamento assicura al lavoratore vulnerabile il tempo necessario per agire in giudizio, mantenendo al contempo un punto di stabilizzazione finale per la posizione del datore di lavoro.
 

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