10 novembre 2025

Cassazione Lavoro 2025: ultime pronunce su dimissioni nel periodo di prova, onere della prova nel comporto e carenza motivazionale nel recesso

In Pratica n. 39 - 2025
Autore: Fabiano De Leonardis

Il 2025 è stato caratterizzato da una serie di pronunce della Corte di Cassazione che, pur muovendosi nel solco dei principi consolidati del diritto del lavoro, hanno offerto interpretazioni cruciali su aspetti che impattano direttamente sulla gestione del rapporto e sul contenzioso. Il presente contributo editoriale si concentra su tre ordinanze e sentenze che disegnano un perimetro più chiaro e, in alcuni casi, più stringente, per datori e lavoratori, in fasi nevralgiche del rapporto: dalla tutela della volontà negoziale in fase di recesso in prova, dalla distribuzione dell'onere probatorio nei licenziamenti per comporto, fino alle conseguenze sanzionatorie della carenza motivazionale.

 

In particolare: i) l'Ordinanza n. 24991/2025 chiarisce definitivamente l'applicabilità della procedura telematica di revoca delle dimissioni anche al recesso rassegnato in periodo di prova, superando le limitazioni interpretative della prassi ministeriale; ii) l'Ordinanza n. 14157/2025 consolida la corretta ripartizione dell'onere della prova nei licenziamenti per superamento del comporto, caricando il lavoratore della dimostrazione delle cause escludibili; iii) la Sentenza n. 9544/2025 opera un significativo revirement in tema di vizi formali, equiparando la carenza assoluta di motivazione all'insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria nelle aziende maggiori.

Ordinanza Cass. n. 24991 del 11 settembre 2025: dimissioni del lavoratore revocabili anche durante il periodo di prova

L' Ordinanza della Corte di Cassazione n. 24911 dell'11 settembre 2025 offre un importante chiarimento in tema di volontà negoziale e tutela del lavoratore anche in una fase contrattuale tradizionalmente caratterizzata dalla massima libertà di recesso, ossia il periodo di prova.

La Suprema Corte, con questa pronuncia, afferma in modo netto che le dimissioni presentate dal lavoratore, anche durante il periodo di prova, sono atti negoziali unilaterali recettizi ma revocabili purché la revoca pervenga al datore di lavoro prima o contestualmente all'atto di dimissioni stesso.

Il periodo di prova, ai sensi dell' art. 2096 c.c., è preordinato alla valutazione reciproca dell'interesse alla prosecuzione del rapporto ed in particolare il datore valuta le capacità e il comportamento professionale e il lavoratore valuta l'interesse e l'adeguatezza delle condizioni di lavoro. Questa funzione giustifica la massima libertà di recesso ad nutum ovvero senza obbligo di motivazione e senza preavviso) per entrambe le parti. Tuttavia, la Cassazione ribadisce che tale libertà non incide sulla disciplina generale degli atti negoziali e le dimissioni, anche se date in prova, restano una manifestazione di volontà del lavoratore di porre fine al rapporto.
 

L’istituto della convalida delle dimissioni è disciplinato ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. n.151/2015 (c.d. Jobs Act)  ed in particolare il comma 2 prevede che entro 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo di dimissioni, il lavoratore ha la facoltà di revocare le stesse. Da questo punto di vista, infatti, il D.Lgs. n. 151/2015 ha introdotto l'obbligo di utilizzo della procedura telematica per le dimissioni e risoluzioni consensuali al fine di contrastare le cosiddette dimissioni in bianco e tutelare la libera volontà del lavoratore. 

L'istituto della revoca rappresenta infatti il meccanismo che consente al lavoratore di esercitare un ripensamento e di assicurare che la sua volontà di interrompere il rapporto sia libera e consapevole. La Cassazione, affermando l'applicabilità della procedura telematica e del relativo termine di sette giorni anche al recesso in prova, stabilisce che la massima libertà di recesso che connota il periodo di prova non può sacrificare la tutela della genuinità del consenso del lavoratore, garantita dalla procedura telematica.

La pronuncia si pone in netto contrasto con l'interpretazione amministrativa fornita in passato dalla Circolare del Ministero del Lavoro n. 12 del 15 marzo 2016, Punto 1.2, lettera b), la quale include il recesso durante il periodo di prova tra le fattispecie escluse dall'obbligo di procedura telematica. La norma primaria ex art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 151/2015 non prevede, tra le eccezioni all'obbligo telematico, le dimissioni rassegnate in prova ed escludere il recesso in prova, come fatto dalla Circolare, avrebbe significato ridurre la sfera di tutela di una categoria di lavoratori. Sul punto, infatti, la Corte ha censurato l'interpretazione ministeriale, dichiarando che “la circolare n. 12 del 4 marzo 2016 del Ministero del Lavoro si sarebbe spinta, invero, fino al punto di conferire alla norma contenuti diversi rispetto al suo dato testuale, andando oltre una mera attività interpretativa. La Corte ha, quindi, ritenuto non applicabile al caso di specie la circolare ministeriale n. 12 del 4 marzo 2016, in quanto introduttiva di un'ipotesi derogatoria alla norma primaria”.

Partendo da tali assunti, l'Ordinanza chiarisce l'effetto giuridico della revoca ovvero che, qualora venga esercitata dal lavoratore nel termine di sette giorni dalla trasmissione del modulo telematico, essa priva di efficacia ex tunc l'atto di recesso ed il rapporto di lavoro si considera come non si fosse mai interrotto. Ne deriva la piena prosecuzione del rapporto, senza necessità di alcun nuovo accordo o atto di riassunzione.

La pronuncia in rassegna impone pertanto una revisione delle prassi aziendali relative alla gestione del recesso in prova ed in particolare:

  • il recesso del lavoratore in prova deve avvenire attraverso la procedura telematica del Ministero del Lavoro, salvo i casi tassativi di esclusione;
  • i datori di lavoro devono essere consapevoli che, anche dopo aver ricevuto la notifica di dimissioni in prova, il rapporto non è definitivamente concluso prima che siano trascorsi i sette giorni previsti per l'esercizio della facoltà di revoca.

L'Ordinanza n. 24991/2025 riafferma la supremazia della legge sulla prassi amministrativa e rafforza la tutela della volontà negoziale del lavoratore, anche in una fase contrattuale tradizionalmente debole: “la ratio del patto di prova e quella dell'art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 sono differenti e non interferiscono reciprocamente: la prima mira a tutelare l'interesse comune di verifica del contratto, la seconda a evitare abusi datoriali, specialmente in una posizione di debolezza del prestatore”. Le circolari ministeriali, da canto loro, costituiscono atti interni all’amministrazione, diretti ad uniformare l’azione degli organi amministrativi  ma non creano diritto e non possono vincolare l’interpretazione giudiziale.

Non da ultimo, sul piano delle conseguenze, la ricorrente contesta l'ordine di ripristino del rapporto di lavoro in prova, sostenendo che, in caso di invalidità o inefficacia delle dimissioni in periodo di prova, spetterebbe al lavoratore solo il risarcimento del danno e non la reintegrazione. La Corte risponde che “A fronte di una revoca valida ed efficace, le dimissioni sono state considerate come mai avvenute. Il rapporto di lavoro non si è mai interrotto e, di conseguenza, deve essere ripristinato nella sua interezza, inclusa la fase di prova, che, nel caso di specie, non aveva avuto un effettivo svolgimento a causa delle dimissioni tempestivamente revocate” e pertanto non ci può essere un’indennità risarcitoria.

Ordinanza Cass. n. 14157/2025: licenziamento e superamento del periodo di comporto

L' Ordinanza della Corte di Cassazione n. 14157 del 23 maggio 2025 statuisce che grava sul lavoratore che impugna il licenziamento per il superamento del periodo di comporto l’onere di addurre le cause delle assenze che hanno portato alla risoluzione del rapporto e dimostrare che la malattia all’origine di alcune assenze è dipesa dalla mansioni svolte, con la conseguente responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. e relativa esclusione dal computo del comporto dei giorni di assenza: “ai fini della responsabilità del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., il lavoratore è tenuto a provare la nocività della mansione svolta ed il suo collegamento causale con la patologia contratta”. 

Il cuore della pronuncia risiede nella corretta applicazione dell' art. 2697 c.c. per quanto concerne l’onere della prova nel contenzioso sul licenziamento per comporto. A tal proposito, spetta al datore di lavoro dimostrare la circostanza oggettiva che ha legittimato il licenziamento, ovvero: i) l'esistenza e la durata del periodo di comporto applicabile stabilito dalla legge e dal CCNL; ii) l'avvenuto superamento di tale periodo da parte del lavoratore, calcolando le assenze complessive: iii) la tempestività del licenziamento rispetto al superamento (che deve essere intimato in un arco temporale ragionevole). Se quindi il datore ha provato il superamento, spetta al lavoratore introdurre i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto di recesso da parte del datore di lavoro.

Non da ultimo, la pronuncia qui in esame ha sottolineato che la prova delle suindicate circostanze non può essere fornita mediante una sentenza resa all’esito di un giudizio promosso esclusivamente nei confronti dell’INAIL poiché che tale decisione non è opponibile al datore di lavoro rimasto estraneo a tale giudizio: “Quanto alla rilevanza negata alla sentenza passata in giudicato, conclusiva del giudizio intentato dal ……. nei confronti dell'INAIL, con la quale era stata accertata la natura professionale della stessa malattia che aveva dato origine e causa alle assenze oggetto del presente giudizio, la Corte territoriale ha motivato su tale irrilevanza in considerazione della mancata partecipazione della società datrice di lavoro a quel giudizio e, quindi, sulla conseguente inopponibilità di quel giudicato nel presente giudizio. Tale motivazione è conforme a diritto (art. 2909 c.c.)”.

In conclusione, la Corte di Cassazione con l’Ordinanza in esame ha enunciato il principio secondo cui, nei casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, è onere del dipendente dimostrare che le assenze per malattia siano dovute a una patologia di origine professionale imputabile al datore di lavoro ex art. 2087 c.c., così da poterne escludere il computo; per converso, in assenza di tale prova, il licenziamento resta legittimo: “Peraltro, posto che l'assenza (durata oltre il periodo di comporto tutelato dal CCNL) è dipesa da malattia, incombeva sul lavoratore l'onere di dimostrare che tale malattia era dipesa dalle mansioni svolte (ex multis Cass. n. 678 cit.), con conseguente responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. e connessa esclusione di quei giorni di assenza dal computo del comporto”.

Sentenza n. 9544/2025: carenza di motivazione e reintegra dopo il licenziamento

La Sentenza della Corte di Cassazione n. 9544 dell'11 aprile 2025 è un provvedimento di notevole rilievo nomofilattico per quanto concerne il corretto  inquadramento delle sanzioni applicabili al licenziamento viziato da carenza o estrema genericità di motivazione nelle imprese con più di 15 dipendenti. In tale contesto, infatti, il vizio della inesistenza della motivazione non è una mera violazione formale ma ha una ricaduta sostanziale: “In tema di vizi della motivazione del licenziamento, nel regime delle imprese con più di 15 dipendenti, la mancata o generica individuazione del fatto non integra una mera violazione formale ma, poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto, che, pertanto, dovrà essere dichiarato insussistente dal giudice, ha una ricaduta sostanziale che determina l'illegittimità originaria del licenziamento, con applicazione della reintegra attenuata di cui all'art. 18, 4 comma, L.300/1970”.

Entrando nel dettaglio della vicenda, il caso in esame vede un lavoratore assunto prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.23/2015 e la Corte ha ricordato che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della L.n.604/1966, la comunicazione del licenziamento deve contenere, contestualmente, i motivi che lo hanno determinato: in mancanza viene meno il diritto a difesa del lavoratore.

Ai sensi dell' art. 2, comma 2, L. 604/1966, la comunicazione del licenziamento deve contenere, contestualmente, i motivi specifici che lo hanno determinato. La giurisprudenza ha sempre riconosciuto a questo obbligo una duplice funzione ovvero mettere il lavoratore nelle condizioni di comprendere la ragione del recesso e approntare la propria difesa e contestualmente definire l'oggetto del recesso, senza il quale il recesso stesso è privato della sua giustificazione causale.

Tradizionalmente, la violazione del requisito della motivazione, che risulti generica oppure omessa, veniva ricondotta al comma 6 dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, prevedendo quindi una tutela meramente indennitaria come violazione formale o procedurale. In tal senso, anche nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva riconosciuto l’inefficacia del licenziamento per violazione dell’art. 2, comma 2, della Legge 604/1966, applicando la tutela indennitaria ex art. 18, comma 6 ma la Cassazione ha tuttavia ritenuto questa qualificazione inadeguata, chiarendo che la totale assenza di motivazione nel provvedimento espulsivo costituisce un vizio non solo formale ma anche sostanziale, che impedisce al lavoratore di esercitare il proprio diritto di difesa. In tali casi, pertanto, la tutela applicabile è quella prevista dall’art. 18, comma 4, ovvero la reintegra attenuata consistente nella reintegra ed anche nell'indennità di risarcimento di 12 mensilità. 

La Corte argomenta che, se il datore di lavoro non è in grado di specificare il fatto a cui imputa il recesso, significa che quel fatto è insussistente o indeterminabile. Applicare la tutela minore di natura indennitaria nella situazione più grave, caratterizzata da un’assenza totale di un fatto giustificativo, e la tutela maggiore di reintegratoria attenuata nei casi in cui un fatto sia stato addotto ma sia risultato insussistente in giudizio, creerebbe una palese irragionevolezza del sistema sanzionatorio.

In conclusione, per il lavoratore, l'impugnazione del licenziamento basata sulla carenza motivazionale acquista un'importanza strategica, in quanto non mira più alla sola indennità, ma può condurre direttamente alla tutela reale (reintegra), con la corresponsione delle retribuzioni dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegrazione.

Caso

L'azienda Alpha S.p.A. con 80 dipendenti comunica al dipendente Mario Rossi, impiegato commerciale, il licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo (GMO) con la seguente motivazione, contenuta nella lettera di recesso: “Il Suo rapporto di lavoro è risolto con effetto immediato per motivi inerenti l'organizzazione del lavoro, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto”.

Il difensore di Rossi impugna il licenziamento, sostenendo che la motivazione è assolutamente generica e carente. Non vengono infatti specificati quali siano le motivazioni inerenti l'organizzazione (es. soppressione di una posizione, riorganizzazione di un settore) e perché tale riorganizzazione abbia colpito proprio Rossi (assenza di prova del nesso causale).

Il legale dell'azienda sostiene che la genericità è un vizio formale che, ai sensi dell'art. 18, comma 6 (come interpretato prima della Sentenza 9544), comporta la sola tutela indennitaria (risarcimento da 6 a 12 mensilità) e non la reintegra, essendo un vizio sanabile con un risarcimento economico.

Il Giudice del Lavoro, applicando il principio stabilito dalla Cassazione n. 9544/2025, accoglie l'impugnazione del lavoratore e ritiene che l'indicazione di "motivi inerenti l'organizzazione" senza alcuna specificazione del fatto materiale (la specifica esigenza produttiva o riorganizzativa) costituisca una carenza radicale di motivazione.

La Corte quindi equipara la carenza di motivazione all'insussistenza del fatto posto a base del recesso e applica la tutela reintegratoria attenuata prevista dal comma 4 dell'art. 18, St. Lav.: i) obbligo di reintegra di Mario Rossi nel posto di lavoro; ii) condanna della Alpha S.p.A. al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegrazione, nel limite massimo di 12 mensilità, dedotto l'eventuale aliunde perceptum.

L'esperto

Secondo l'Ordinanza della Cassazione n. 24991/2025, è applicabile la procedura di revoca telematica delle dimissioni (art. 26, D.Lgs. 151/2015) anche al recesso rassegnato dal lavoratore durante il periodo di prova? E quale ne è l'effetto se esercitata tempestivamente?

Sì, è applicabile. La Cassazione ha stabilito che la facoltà di revoca, esercitabile entro sette giorni dalla trasmissione del modulo telematico, si applica anche alle dimissioni in prova, superando l'interpretazione restrittiva della Circolare Ministeriale n. 12/2016. La Corte ha ritenuto che la norma primaria non preveda tale esclusione. L'effetto della revoca tempestiva è di privare di efficacia ex tunc l'atto di recesso, con la conseguenza che il rapporto di lavoro si considera come non si fosse mai interrotto.

In un giudizio di impugnazione di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, a chi spetta l'onere di provare che alcune assenze per malattia debbano essere escluse dal calcolo e perché?

Se il datore di lavoro ha provato l'avvenuto superamento del monte ore/giorni previsto dal CCNL, l'onere di provare la causa specifica della malattia e la sua conseguente esclusione dal comporto ricade interamente sul lavoratore; questo principio si basa sulla logica della vicinanza della prova, poiché solo il lavoratore dispone della documentazione medica specifica necessaria a distinguere le tipologie di assenza.

Nelle aziende tutelate dall'art. 18 (più di 15 dipendenti), la Cassazione 9544/2025 che sanzione applica al licenziamento con motivazione assente o estremamente generica?

La Cassazione n. 9544/2025 eleva la carenza radicale di motivazione da vizio formale a vizio sostanziale, equiparandola all'insussistenza del fatto posto a base del recesso. La sanzione applicata è, pertanto, la reintegra unita alla tutela prevista dall'art. 18, comma 4, che prevede la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria fino a un massimo di 12 mensilità.

 
 

 

Per sbloccare i contenuti, Abbonati ora o acquistali singolarmente.
  • In pratica - Cassazione Lavoro 2025 dimissioni in prova, onere della prova nel comporto e motivazione del recesso.pdf (254 kB)
  • In pratica - Cassazione pronunce 2025 onere della priva.pdf (1.1 MB)
Cassazione Lavoro 2025: ultime pronunce su dimissioni nel periodo di prova, onere della prova nel comporto e carenza motivazionale nel recesso
€ 4,00

(prezzi IVA esclusa)

 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy