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Il nido vuoto

Autore: Ester Annetta
“I vostri figli non sono figli vostri/sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita./Nascono per mezzo di voi, ma non da voi./Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.”

Sono i primi versi d’una nota poesia che il poeta libanese Kahlil Gibran scrisse più di cent’anni fa. La conoscono tutte le madri; la ricevono, anzi, come un testimone dalle proprie, nel momento in cui diventano strumento del miracolo della vita, affinché mai si illudano d’essere protagoniste dell’esistenza dei propri figli, arbitri delle loro scelte, loro esclusivi punti di riferimento.

Arriva infatti il momento in cui quelle parole assumono concretezza, diventando pesanti, cariche d’una consapevolezza che scalza di colpo ogni finzione, ogni ottusa convinzione che ci sia ancora tempo prima che venga reciso anche quel cordone ombelicale invisibile di reciproca dipendenza che le madri riannodano non appena quello fisico viene tagliato, poco dopo l’”io sono!” scandito dal primo vagito.

Comincia con un andirivieni di scatoloni, valigie, buste e pacchi di taglia varia, avvisaglie discrete ma eloquenti di una transizione in atto che, tuttavia, si tende a sminuire d’importanza, quasi fosse una sorta di prova generale cui si è convinte che non farà seguito alcuna prima.

Solo quando arriva il giorno del congedo, la macchina è ormai carica e il gatto, nel suo trasportino, prende posto sul sedile del passeggero, liberando anche i suoi angoli di casa dal proprio corredo di lettiera e ciotola di croccantini, la presa di coscienza arriva netta, prepotente, devastante: il passerotto implume ha ora ali abbastanza forti per spiccare il volo, da solo, libero di andare verso i suoi orizzonti e incontro alle sue nuove albe.

La chiamano perciò “sindrome del nido vuoto”, ed è ciò che resta alle madri dopo quell’abbraccio che sa di commiato e di abbandono: una casa dove il tempo sembra stagnare oltre la porta della “cameretta” che ha visto tutte le metamorfosi d’un bambino poi diventato adolescente e, infine uomo; dove i poster dei Pokemon sono stati sostituiti dalla bandiera americana, dal ritratto del Ché, dalle foto di Totti e De Rossi, da espositori fitti di biglietti di concerti, d’aerei, di treni, di birrerie e paninoteche.

In quei pochi metri quadrati la vita è trascorsa in un lampo, gli anni sono stati fagocitati dal tempo e mentre crescevano la statura, le taglie ed i tatuaggi dei figli, le madri hanno cominciato a curvarsi, a imbiancare, a stancarsi.

Non è la stessa cosa quando, per ragioni di studio, qualcuna di quelle appendici preziose trasloca altrove: sa, infatti, di transitorietà quel distacco, un intervallo di lontananza formativo cui perlopiù fa seguito un ritorno certo.

C’è già allora, in verità, un vago timore che quell’assaggio di indipendenza possa poi sollecitare un maggior appetito di autonomia, fondare un desiderio di “crescere in fretta” per trovare la propria strada e il proprio ruolo. Perciò la fine di quella parentesi è vissuta come la concessione di una proroga prima d’un secondo e definitivo distacco, la presa d’aria in più necessaria ad affrontare la lunga apnea del dopo.

In fondo, però, le madri lo sanno che è giusto così; razionalmente lo comprendono d’essere, nella grammatica della vita, un punto cui segue un “a capo” che non le contemplerà più come soggetto del periodo successivo, ma solo come complemento; la boa oltre cui si spalanca il mare aperto su cui navigherà la barchetta dei loro figli, non più affidata al loro timone ma soltanto alla preghiera che mai incontri tempeste.

Col cuore però no: è un pezzo che si stacca, che mutila quel muscolo cavando uno spazio che nient’altro può colmare.

È la vigilia di un tempo fatto di nuove attese: non più della chiave che gira nel toppa ad un’ora imprecisata della notte, trascorsa in veglia, né quella del voto d’un esame o d’una ferita che si rimargini; ma quella di telefonate che diventeranno sempre più rade e di domeniche e feste sempre meno onorate.

“Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.”

Ciò che resta indietro sarà tutto ciò che è stato, le tacche sul muro d’una stanzetta che avranno segnato l’avanzare dell’altezza, la scatola del “primo” d’ogni cosa conservata con cura e un’etichetta incollata sulla porta con la scritta “chambre d’enfant” che non sarà mai staccata.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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