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L’indifferenza che uccide

Autore: Ester Annetta
Impiccamento: Asfissia meccanica determinata dall'impedimento alla respirazione per un laccio che passato attorno al collo ne produce la compressione e lo stiramento per il peso stesso del corpo che vi rimane più o meno sospeso. Il meccanismo della morte è in gran parte uguale a quello delle altre asfissie. Tuttavia, in questo caso, intervengono fenomeni attinenti alle speciali lesioni degli organi del collo. La morte segue rapidamente con la perdita quasi subitanea della coscienza. A seconda della posizione del laccio e per altre circostanze si hanno differenze nei modi di morire. Se, per es., l'ansa del laccio, al davanti del collo, è molto in alto, s'ha compressione della base della lingua che viene spinta contro la colonna cervicale e viene a tamponare la faringe impedendo completamente il respiro. Per la compressione dei grossi vasi (carotidi) si produce subitanea anemizzazione del cervello e immediata perdita di coscienza. Se predomina la compressione delle vene (giugulari) si determina cospicua congestione al capo e anche ecchimosi e apoplessie. La compressione e lo stiramento del nervo pneumogastrico dà luogo a perturbamenti nella funzione cardiaca. Nei casi di violento stiramento sul collo (come nei giustiziati) si possono osservare lussazioni vertebro-cervicali con stiramenti del midollo, ecc. La morte è rapida, può anche essere istantanea per inibizione bulbare; ma, per lo più, dopo sensazioni di caldo, ronzii, fosfeni, ecc.; segue subito perdita di coscienza, violente convulsioni e poi rilasciamento finale, anche degli sfinteri. La morte si ha in 5-10 minuti.

È con tale dovizia di particolari che è descritto l’impiccamento nell’Enciclopedia Italiana Treccani e, se si cercano ulteriori specifiche, tantissime ancora se ne trovano sul web, non ultime quelle riportare da Wikipedia, che descrive addirittura come diverso sia il tipo di strangolamento a seconda del tipo di “caduta” e della lunghezza della corda impiegata.

Non è stata perversa curiosità quella che mi ha spinto a cercare questi dettagli, quanto, piuttosto, il bisogno di comprendere quel gesto estremo e tragico che qualche giorno fa ha portato Mariolina Nigrelli a porre fine alla propria vita insieme a quella di sua figlia Alessandra, appena quattordicenne.

Dicono che dietro l’apparenza d’una famiglia unita e serena qual era la loro - insieme a Maurizio, marito e padre esemplare e gran lavoratore - si celasse in realtà una condizione di profondo disagio, un male dell’anima, talmente incancrenito in Mariolina d’averlo trasfuso in Alessandra, che viveva avvolta nel suo manto protettivo, nelle spire d’un abbraccio quasi asfissiante, un vero e proprio muro di cinta con cui quella madre tentava ad ogni costo di tenerla lontano dalle insidie del mondo esterno, un ordinario che, a confronto dei quotidiani rituali fatti di scuola, compiti a casa e incombenti domestici, assumeva i contorni d’una minaccia.

Alessandra era una studentessa modello, di quelle da 10 e lode, voti ottenuti forse più per gratificare sua madre che non se stessa. Lontana - fisicamente e per atteggiamenti - dai modelli delle quattordicenni d’oggi, ricalcate sullo stampo di eroine e miti social, molto più attente alla loro apparenza che non ai contenuti. Un modo di essere fuori tempo e fuori luogo, che, evidentemente, aveva contribuito a relegarla ai margini del proprio contesto scolastico ma anche di vita, chiusa in un piccolo e antico mondo fatto solo di doveri e di valori che forse nemmeno era in grado di comprendere, ma che assecondava più per compiacere sua mamma che non per consapevole scelta.

Lei, Mariolina, quella madre chioccia troppo apprensiva e troppo severa nell’indicare regole di comportamento e di educazione a quella sua unica creatura, aveva finito a sua volta per isolarsi, per scegliere il lato della difensiva nel confronto con le altre madri, scontrandosi frequentemente con loro, colpevoli forse, insieme ai propri figli, di aver trasformato un disagio in discrimine.

Sono ipotesi – si legge sui notiziari – formulate ora, alla luce di quell’imprevedibile e assurdo gesto infine scaturito da un’invettiva che Mariolina, dalla sua pagina Facebook, negli ultimi tempi aveva continuato a lanciare all’indirizzo di nemici mai definiti e che, se fosse stata diversamente catturata e attenzionata - anziché passare tra le maglie lente dell’indifferenza o persino l’ironia con cui perlopiù l’ha letta chi prontamente le ha etichettarle come il delirio d’un pensiero distorto – sarebbe apparsa come un grido d’aiuto.

Cerchiamo allora di immaginarlo l’ultimo atto della tragedia incompresa che era evidentemente diventata l’esistenza di Mariolina e di Alessandra: la madre che intuisce che la figlia sta crescendo, che forse tra non molto non sarà più in grado di dirigerla e governarla, che si ribellerà, che si confronterà con le sue coetanee scoprendo allora, più consapevolmente, il peso di quella diversità con cui è stata cresciuta e gliene darà la colpa. La figlia protetta e prediletta che diventerà sua nemica.

E allora ecco la soluzione, l’unica possibile: stringere per l’ultima volta, definitivamente, quel cordone ombelicale che rischia di allentarsi, fino a trasformarlo in un cappio, inesorabilmente destinato a rendere fatale l’asfissia di quel legame materno.

Che parole avrà usato Mariolina per convincere Alessandra a lasciarsi legare una corda al collo, consapevole che a quella trave da cui penzolava sarebbero rimasti appesi anche il suo ultimo alito di vita, i suoi desideri, il suo futuro?

Quale sentimento, quale convinzione avranno permesso a quella madre di non desistere dal suo intento neppure di fronte agli spasmi, alla “danza” scomposta dovuta alle convulsioni dell’asfissia, in cui avrà visto dimenarsi sua figlia prima che spirasse?

Un assassino agisce per lucida premeditazione; un folle agisce per scarsa consapevolezza; per che cosa agisce una madre che arrivi ad un tale gesto? Quanto profondo dev’essere il suo dolore? Quanto inguaribile il male della sua anima?

E perché, nonostante la “pericolosità” del legame tra Mariolina e Alessandra fosse visibile - come da tutti poi concordemente affermato - nessuno si è preso la premura di lanciare un allarme? Perché, solo dopo, i membri di quella piccola comunità di Santo Stefano di Camastra, dove tutti sanno tutto di tutti, ha confermato di conoscere il grande disagio di quella madre e di sua figlia?

Mariolina non ha ucciso Alessandra, né a sua volta si è suicidata. Ad ucciderle sono state la solitudine e l’indifferenza - le piaghe più comuni di questo tempo (e senza l’alibi della pandemia!) - le colpe di tanti corresponsabili che cinicamente coltivano il proprio orticello e si dedicano al proprio apparire, ignorando gli sfoghi - forse a tratti anche deliranti – di un’altra madre, emarginandola come già i loro figli hanno fatto con la sua.

Gli stessi che, con disgustosa ipocrisia, organizzano poi sulla chat di classe la colletta per comprare una corona di fiori.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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