24 febbraio 2024

La UE aggiorna la black list dei paradisi fiscali

Escono alcuni piccoli Paesi sudamericani e caraibici che rappresentano le mete predilette per spostare ingenti capitali sottratti al fisco dei rispettivi Paesi. Operazioni che vedono gli italiani fra i più attivi

Autore: Germano Longo
Da un punto di vista squisitamente turistico, le Bahamas, il Belize, le Seychelles e le Isole Turks and Caicos sono dei veri avamposti del concetto di paradiso terrestre. Ma da quello più strettamente economico erano considerati paradisi fiscali, una classificazione di tutt’altro tenore in cui la qualità delle spiagge e il colore del mare contano poco.

Ma nelle scorse ore, il Consiglio UE dei Ministri degli Affari Europei ha deciso di rimuovere Bahamas, Belize, Seychelles e Turks and Caicos dalla black list delle giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali. La lista nera UE, con il nuovo aggiornamento, comprende 12 Paesi fra cui Samoa americane, Anguilla Antigua and Barbuda, Figi, Guam Palau, Panama, Russia, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini americane e Vanuatu, al momento tutti ancora riluttanti all’idea di aprire un dialogo sulla governance fiscale o che, peggio ancora, non hanno mantenuto gli impegni assunti tempo prima che riguardano la trasparenza fiscale, l’equità della tassazione e l’attuazione di standard internazionali sul trasferimento dei profitti.

Secondo i dati più recenti, aggiornati dall’indagine “Global Tax Evasion Report 2024”, gli italiani in questo sono dei veri maestri che hanno spostato verso paradisi fiscali fra Svizzera, Asia, resto d’Europa e America ben 196,5 miliardi di euro attraverso azioni, bond, quote fondi, depositi bancari e beni immobili acquistati in celebri località turistiche per 15,5 miliardi di euro. In particolare fra Costa Azzurra (7,3 miliardi), Parigi (3,7), Londra (2,7), Oslo (200 milioni), Dubai (920 milioni) e Singapore (140 milioni).

Dei 196,5 miliardi fuggiti all’estero, 181 risultano depositati su c/c di banche off-shore o in attività finanziarie di diversa natura. E di questi, 82,6 miliardi (il 45,5%) ha preso la direzione della Svizzera, Paese che malgrado gli sforzi sul superamento del segreto bancario resta una meta prediletta anche per via della vicinanza. Ma non sono da meno altri 61,5 miliardi (il 33,8%), dispersi ad arte fra Paesi UE come Irlanda e Olanda, mentre 26,6 miliardi (il 14,6%) ha preso la via dell’Asia e altri 11 (6%) hanno attraversato l’Oceano per sbarcare negli Stati Uniti.

La “Black List”, aggiornata due volte all’anno (la prossima è prevista alla fine del 2024), è uno strumento adottato dai Paesi UE nel 2017 che si è reso necessario dopo alcuni scandali di portata internazionale come i “Panama Papers” e “LuxLeaks”, il primo un corposo fascicolo composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali su 214mila società offshore che aveva messo nei guai funzionari pubblici e di governo di una ventina di Paesi diversi, il secondo lo scandalo svelato da un’inchiesta giornalistica che ha portato alla condanna di due ex collaboratori di una potente società di consulenza del Lussemburgo.

Da allora, è stato deciso che nella lista nera, dotata anche di poteri che possono arrivare al congelamento dei fondi UE, finiscano tutti i Paesi a tassazione agevolata in cui singoli nababbi, colossi del web, multinazionali e corporation di tutto il mondo scelgono di spostare i propri capitali per evadere le tasse nei rispettivi luoghi di residenza, sottraendo liquidità importanti per finanziare voci come sanità, welfare e istruzione.

Entrare o meno nella black list dipende da diversi parametri fiscali valutati con punteggi che alla fine mostrano il livello di rischio potenziale di ogni Paese. Il passaggio successivo è la scrematura dei sistemi fiscali più lontani dai tre punti che rappresentano gli standard richiesti dall’UE: la trasparenza sulle informazioni fiscali, la “fair taxation”, indice che valuta l’esistenza di regole che facilitino la nascita di strutture offshore capaci di attrarre profitti, e per finire l’assenza di misure che non corrispondano ai trattati BEPS (“Base-Erosion and Profit Shifting”).

Un meccanismo che mette d’accordo i Paesi UE ma considerato obsoleto e inefficace delle ONG, secondo cui l’obiettivo di costringere i Paesi ad allineare le imposte sui profitti delle multinazionali finisce addirittura per incentivare gli stessi a non alzare le imposte sui redditi stranieri abbassandole per tutti i redditi d’impresa fino ad allargare la platea dei beneficiari. Altra critica che ha sempre imbarazzato Bruxelles, la scarsa attenzione messa dalla stessa UE verso i paradisi fiscali conclamati che agiscono entro i propri confini, come Irlanda, Malta, Lussemburgo e Paesi Bassi.
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