29 maggio 2021

Offese a mezzo social

Autore: Ester Annetta
Che i tempi cambino e con essi la cultura e il lessico è un’equazione che non piace alla Cassazione, che, viceversa, continua a ritenere offensivi epiteti ed aggettivi che oggi sono entrati nel linguaggio comune e considerati ormai neutri.

È quanto emerge dalla sentenza n. 19359/2021 del 23 marzo scorso, depositata il 17 maggio, con cui la Suprema Corte ha confermato la condanna per diffamazione pronunciata sia in primo grado che in appello nei confronti di un imputato “transessuale, esercente la prostituzione”, responsabile di aver definito su Facebook “frocio” e “schifoso” un uomo con cui aveva avuto rapporti a pagamento.

Contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano - con cui, come accennato, era stato ribadito il verdetto del Tribunale - l'imputato aveva sollevato in Cassazione i seguenti motivi di doglianza:
  • in primis, aveva contestato la competenza territoriale, rilevando che il giudizio si era celebrato a Milano (ritenuto luogo di domicilio dell’imputato) mentre, trattandosi di reato commesso con l’ausilio di Internet, riconducibile a un provider italiano, la competenza sarebbe stata dell’Autorità giudiziaria di Roma;
  • in secondo luogo, aveva contestato la natura diffamatoria delle espressioni indirizzate alla vittima del reato, sostenendo come ormai esse, con l’evoluzione della coscienza sociale, avessero perso il loro passato significato dispregiativo. Aveva inoltre contestato che la comunicazione a mezzo Internet potesse integrare un’aggravante, rilevando che la messaggistica di Facebook sarebbe riconducibile alla sfera privata;
  • col terzo motivo aveva lamentato la mancata assunzione di una prova decisiva e, cioè, l'audizione del conduttore di un programma, di cui era stata acquisita a dibattimento la registrazione radiofonica;
  • infine aveva lamentato che la Corte d’Appello aveva considerato diffamatoria un’ulteriore espressione attribuitagli (“se un uomo sta con un altro uomo a letto cosa è? In gergo è un frocio. Mi sbaglio?”).

La Cassazione ha tuttavia respinto il ricorso per manifesta infondatezza, rilevando, anzitutto che, per consolidata giurisprudenza, la competenza per territorio del reato di diffamazione commesso mediante la diffusione di notizie lesive dell’altrui reputazione allocate in un sito della rete Internet si determina secondo il criterio del luogo di domicilio dell’imputato, in applicazione del criterio di cui all'art. 9 comma 2, c.p.p. (che stabilisce che, ove non sia determinabile il luogo in cui è stata commessa l’azione, per la determinazione della competenza del giudice si fa riferimento al luogo di residenza, dimora o domicilio dell’imputato).

In relazione al secondo motivo, la Corte ha rilevato che non è vero che le espressioni utilizzate dall'imputato non possiedono connotazione dispregiativa: “Le suddette espressioni costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall’imputato”.

Quanto, poi, all’aggravante, la Cassazione ha ritenuto sussistere quella di cui all’art. 595 comma 3 c.p. essendo riconducibile il messaggio diffamatorio diffuso attraverso Facebook ad offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché “la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”. Correttamente è stata perciò ritenuta integrata l’aggravante citata in quanto la diffamazione è avvenuta su un social network ad ampia diffusione.

Infine, in relazione all'acquisizione della registrazione della trasmissione radiofonica, la Corte ha precisato che non occorre il consenso della difesa dell'imputato, perché trattasi di valutazione liberamente apprezzabile dal giudice. Quanto alla rinnovazione dell'istruttoria finalizzata ad esaminare il conduttore della trasmissione, ha ritenuto inoltre trattarsi di deduzione infondata poiché l'imputato non ha mai contestato di aver proferito alcune frasi che gli sono state attribuite, essendosi limitato ad affermare la liceità del suo operato. I giudici quindi hanno ritenuto irrilevante l'allargamento della piattaforma probatoria.

Dichiarata, dunque, l’inammissibilità del ricorso, la Cassazione ha anche condannato l’imputato al pagamento delle spese processuali ed al versamento di tremila euro alla Cassa delle ammende.
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