Può incorrere nel reato di dichiarazione infedele, ai sensi dell’art. 4 del D.lgs. n. 74 del 2000, il promissario venditore che non dichiara al fisco la somma incassata a titolo di penale per l’inadempimento del promissario acquirente.
È quanto emerge dalla lettura della
sentenza n. 23837/2022 della Corte di Cassazione (Sez. III pen.), depositata il 21 giugno.
Il caso - L’imputato, in esito al primo grado di giudizio, è stato riconosciuto responsabile del delitto di dichiarazione infedele, ma successivamente il Giudice d’appello ha dichiarato il non doversi procedere, per l’estinzione del reato per prescrizione.
La Corte di merito ha comunque ordinato la confisca della somma di 241.485 euro, oggetto di precedente sequestro, in quanto costituente il prezzo del reato fiscale in discorso, ai sensi del disposto degli artt. 322 e 240 cod. pen.
Ebbene, l’imputato si è opposto alla decisione del Collegio di secondo grado, denunciando, presso i giudici dell’Alta Corte, la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione sia alla ritenuta sussistenza del reato contestato sia alla disposta confisca.
Gli Ermellini hanno respinto integralmente il ricorso.
Principi di diritto - Per quanto è qui d’interesse, con riferimento alla configurabilità del delitto ex art. 4
D.lgs. n. 74/00 – da cui, secondo il difensore, l’imputato avrebbe dovuto essere assolto, con conseguente mancanza dei presupposti per l’applicazione della confisca “diretta” -, gli Ermellini hanno confermato – aderendo alla valutazione espressa dai Giudici di merito - la rilevanza, ai fini della fattispecie delittuosa in discorso, della
somma di 800.000 euro che, nel caso di specie, il contratto preliminare prevedeva a titolo di “acconto prezzo” e, in caso di inadempimento, “a titolo di penale” in favore della parte promittente venditrice.
- Per il Supremo Collegio, proprio come ritenuto dalla sentenza impugnata, la somma suddetta costituiva reddito imponibile a fini IRPEF e, come tale, avrebbe dovuto essere oggetto della relativa dichiarazione nell’anno 2010.
Secondo la giurisprudenza della Sezione Tributaria – che Cass. Sez. III pen. n. 23837/2022 richiama in motivazione -,
«la caparra confirmatoria risponde ad autonome funzioni: oltre a costituire, in generale, indizio della conclusione del contratto cui accede, incita le parti a darvi esecuzione, considerato che colui che l'ha versata potrà perdere la relativa somma e la controparte potrà essere, eventualmente, tenuta a restituire il doppio di quanto ricevuto in caso di inadempimento ad essa imputabile; può svolgere, inoltre, funzione di anticipazione del prezzo, nel caso di regolare esecuzione del contratto preliminare, costituendo, invece, un risarcimento forfetario in caso d’inadempimento di questo, poiché il suo versamento dispensa dalla prova del quantum del danno subito in caso di inadempimento della controparte, salva la facoltà di richiedere il risarcimento del maggior danno; mentre nell'ipotesi di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei definitivi, assoggettabili ad iva, andando a incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell'imposta, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, l’inadempimento ne propizia il trattenimento, che serve a risarcire il promittente venditore» (per tutte,
Cass. trib. n. 17868/2021).
Si è detto, inoltre, che
«l’inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell'art. 6, coma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti, concordando la dottrina nell’affermare che, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, la rilevanza dell'imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria; in seno all'incremento patrimoniale che si verifica a vantaggio della parte non inadempiente, con l'introito della penale, sono state individuate, ai fini tributari, una componente risarcitoria della perdita subita ed una componente risarcitoria del mancato guadagno; quest'ultima è assimilata a reddito, e quindi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto surrogatoria del mancato reddito a causa dell'inadempimento dell'altro contraente. Per l'individuazione di tali componenti all'interno della prestazione risarcitoria si è fatto ricorso al criterio riferito all’attitudine a produrre reddito della prestazione principale rimasta ineseguita. In caso affermativo, l'introito della penale viene a sua volta considerato reddito per la parte afferente a tale mancato reddito. Ne consegue che la penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell'immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell'art. 67, comma 1, tuir» (
Cass. trib. n. 11307/2016).
- Pertanto, per i giudici penali della Suprema Corte, la somma incamerata dall’imputato costituiva il risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 TUIR; sicché correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto integrato il reato di dichiarazione infedele contestato al ricorrente.
Il ricorso è stato quindi rigettato e, per l’effetto, gli Ermellini hanno addebitato al ricorrente le spese processuali.