Il nuovo Codice deontologico dei commercialisti, approvato dal Consiglio nazionale della categoria nella seduta del 21 marzo 2024, è legittimo. Lo ha stabilito la Quinta sezione bis del TAR del Lazio che, con la sentenza n. 13710 pubblicata lo scorso 11 luglio, ha rigettato integralmente il ricorso presentato dall'Associazione Nazionale Commercialisti (ANC).
Il TAR ha ritenuto infondate tutte le censure sollevate, confermando la legittimità del processo preliminare di consultazione e formazione del testo, che ha previsto l’ampia partecipazione degli Ordini territoriali e dei singoli iscritti; la correttezza delle disposizioni sui limiti alla pubblicità informativa, in particolare il divieto (relativo) di invio di comunicazioni telematiche non richieste, giustificato da motivi di interesse generale quali la tutela della dignità e del decoro professionale; la compatibilità con i principi di concorrenza e con la direttiva Bolkestein dei divieti relativi all’uso di espressioni denigratorie, all’enfasi pubblicitaria e alla menzione dei nominativi dei clienti; la legittimità delle previsioni in tema di diritto di critica e delle relative sanzioni disciplinari, considerate coerenti con la tutela dell’onorabilità della professione.
Piena soddisfazione è stata espressa da Elbano de Nuccio, Presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, per il quale la pronuncia ha certificato – sono le sue parole - «la piena legittimità dell’operato del Consiglio Nazionale sia sotto il profilo del metodo di elaborazione del nuovo Codice sia in merito al contenuto delle regole deontologiche adottate.»
Il TAR, in via preliminare, ha evidenziato come il CNDCEC goda di un ampio potere di auto-organizzazione e regolamentare in funzione di coordinamento dell'azione dei singoli Ordini territoriali. In particolare, l'art. 29, co. 1, lett. c), D.lgs. n. 139/2005 dispone che: «Il Consiglio nazionale, oltre ad esercitare gli altri compiti conferitigli dal presente ordinamento: […] c) adotta ed aggiorna il codice deontologico della professione e disciplina, con propri regolamenti, l'esercizio della funzione disciplinare a livello territoriale e nazionale.» Al Consiglio nazionale è dunque attribuito il potere-dovere di adottare ed aggiornare il codice deontologico, potere-dovere strettamente legato alla funzione di rappresentanza dell'intera categoria che la legge affida all'ente di vertice dell'organizzazione ordinistica.
Ciò posto, entrando nel merito delle censure, il TAR ha ritenuto non contrarie alla c.d. "direttiva Bolkestein" le limitazioni introdotte in ordine alle modalità di comunicazione e al contenuto dell'informazione pubblicitaria, con particolare riguardo al divieto di «inviare, anche tramite terzi, comunicazioni telematiche e messaggi elettronici a potenziali clienti, offrendo le proprie prestazioni professionali senza che questi ne abbiamo fatto richiesta.»
Sul punto la sentenza chiarisce che ciò che rientra nell'ambito del divieto non è "qualsiasi contatto non richiesto" con il potenziale cliente, ma soltanto una specifica tipologia di modalità di promozione commerciale diretta dei propri servizi da parte del professionista, segnatamente quella effettuata mediante «comunicazioni telematiche e messaggi elettronici», sul presupposto del carattere più pernicioso e molesto di tale modalità, soprattutto se realizzata in forma massiva. Il decoro e la dignità della professione, da un lato, e, dall'altro, la protezione dei terzi e del loro diritto a non essere disturbati da messaggi telematici non richiesti costituiscono – per il TAR – «motivi imperativi di interesse generale che giustificano, in modo proporzionato, la limitazione prevista dalla norma deontologica.»
A superare l’esame del Tribunale amministrativo è stata anche la disposizione deontologica che vieta informazioni "enfatizzanti, superlative o suggestive", in quanto anche in tal caso si tratta di un "divieto relativo" compatibile con la direttiva Bolkestein, venendo in rilievo motivi di interesse generale finalizzati a garantire i valori di indipendenza, dignità e integrità della professione.
«In altri termini,» – si legge in un significativo passaggio della sentenza - «il rispetto dei principi della dignità e dell'integrità della professione presuppone che la scelta del potenziale cliente sia pienamente consapevole, dunque che sia assunta sulla base di informazioni pubblicitarie reali ed effettive sulle caratteristiche del servizio professionale offerto e che, pertanto, non sia viziata da informazioni idonee ad alterare la corretta percezione della realtà, come nel caso di informazioni "enfatizzanti, superlative o suggestive".»
Ancora, non contrario a quanto stabilito dal D.L. n. 223/2006 (Decreto Bersani-Visco liberalizzazioni) è risultato il divieto – sempre con riferimento alla pubblicità informativa - di menzionare i «nominativi dei clienti o delle parti assistite», ancorché questi ne abbiano fornito il consenso. Per il TAR – si riporta testualmente – «la scelta di escludere dall'oggetto della comunicazione pubblicitaria il nominativo dei propri clienti, ancorché questi vi acconsentano, non appare contrassegnata da vizi di manifesta irragionevolezza, irrazionalità o illogicità, in quanto pur sempre volta ad assicurare la tutela dell'indipendenza, dignità e integrità della professione nonché il segreto professionale e la riservatezza dell'attività professionale, nel rispetto della specificità della professione di dottore commercialista ed esperto contabile.»
A superare il vaglio di legittimità è stata anche la disposizione secondo cui «Il professionista non può proporre o pubblicizzare prestazioni professionali gratuite ovvero a prezzi meramente simbolici, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo e strumento.»
La scelta operata sul punto dal CNDCEC – spiega la pronuncia – «è finalizzata ad evitare che il dottore commercialista o esperto contabile possa, a fini di impropri accaparramenti di clientela, pubblicizzare o offrire al pubblico prestazioni essenzialmente gratuite o a prezzi meramente simbolici che sviliscono l'integrità, la dignità, il decoro e l'indipendenza del professionista e della professione in generale. […] In definitiva, la disposizione deontologica in esame deve essere rettamente intesa, in quanto le condotte espressamente vietate - contrariamente a quanto eccepito dai ricorrenti - consistono nella "proposta" ovvero nella "pubblicizzazione" di prestazioni professionali gratuite o a prezzi simbolici, poiché finalizzate ad un improprio accaparramento di clientela mediante un "espediente suggestivo", restando invece consentita la concreta "esecuzione" di una prestazione professionale gratuita (ad esempio per motivi di affectio, benevolentia, ovvero per considerazioni di ordine sociale o di convenienza).»
Infine, per quanto riguarda l'innovativo inasprimento della sanzione (dalla censura alla sospensione) relativamente alle comunicazioni del professionista «nei rapporti con la stampa e con tutti gli altri mezzi di informazione e di comunicazione sociale, ivi inclusi i social network», il TAR ha escluso la sussistenza dei vizi prospettati dai ricorrenti, perché la previsione censurata è il risultato di un'ampia valutazione discrezionale riservata al CNDCEC cui la norma primaria ha demandato il potere di adottare e aggiornare il codice deontologico; e anche in tal caso si è inteso rafforzare la tutela del decoro, della dignità e dell'integrità della professione. Infatti, per il TAR, rispetto a mezzi di comunicazione che sono idonei a raggiungere un elevato numero di destinatari, «non è irragionevole l'inasprimento della sanzione al fine di responsabilizzare maggiormente il professionista anche in relazione al contenuto delle comunicazioni, giacché egli non deve fornire notizie coperte dal segreto professionale, spendere il nome dei propri clienti, enfatizzare le proprie capacità professionali e comunicare informazioni equivoche, ingannevoli o suggestive.»