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Il giorno del vaccino

Autore: Ester Annetta
Roma, Policlinico Umberto I – reparto di Urologia, Viale dell’Università 33.

Controllo per la centesima volta l’indirizzo e l’orario dell’appuntamento: le 16.40.

Sono in anticipo di 40 minuti, avrei perciò tutto il tempo di trovare un parcheggio più prossimo a quel civico; ma mi fermo al primo posto che vedo libero, all’inizio del Viale, scoprendo solo dopo che ce ne sarebbero stati almeno altri dieci più avanti.

Sono una maniaca dell’ordine e della puntualità (dicono sia una questione zodiacale) e proprio questo è un appuntamento cui non voglio rischiare di arrivare in ritardo.

La prima sensazione che provo è di nostalgia. Solo adesso che sono qui realizzo che il posto dove devo andare è pressappoco di fronte al cancello che, sul lato opposto di quello stesso viale, ai tempi dell’Università utilizzavo come scorciatoia per arrivare alla facoltà di giurisprudenza. Era un “passaggio segreto”, la cui esistenza veniva svelata solo decorso il primo anno da matricola, quando c’era l’avvicendamento dei nuovi iscritti, che, ignari di quel percorso, avrebbero dovuto invece continuare ad usare l’accesso principale, quello sempre “ingolfato” di Viale Regina Margherita.

È un flashback che dura solo pochi secondi; poi riprendo contatto col motivo del mio essere lì in quel momento.
È il mio “vaccine day”.

Non appartengo ad alcuna categoria “fragile” né ho ragioni d’età che giustificherebbero la mia priorità; semplicemente rientro nei ranghi dei “forzati-della-DaD-intervallata-a-presenza” cui, di questi tempi, è un vantaggio appartenere anche da precari.

Siamo difatti una delle poche categorie che, in era Covid, non solo sono state privilegiate con la possibilità di aver somministrato subito il vaccino – sebbene quello di “serie B”, come alcuni definiscono l’Astrazeneca – ma anche dalla garanzia di uno stipendio, a fronte dei tanti che il lavoro l’hanno perso o sono finiti in cassa integrazione.

Se penso che riceverò il vaccino prima ancora di mia madre (ultraottantenne) e di mio padre (novantenne), mi sento un po’ come quello che ruba le caramelle ad un bambino.

Ma il problema è del contrasto – anzi dello scontro –, ancora una volta evidente, tra l’”efficienza geografica” di alcune regioni rispetto ad altre: il paradosso scandaloso, fino a qualche giorno fa, era che in Calabria non ci fosse ancora un protocollo vaccinale ed ancora non si sapesse chi avrebbe dovuto somministrare i vaccini e dove. Come se non bastasse, le cronache raccontavano invece di favoritismi legati a parentele che avrebbero consentito l’accesso al vaccino a chi non aveva alcuna priorità.

Salgo dunque le scale che portano al padiglione vaccinale. Non c’è calca, non c’è fila. Tutto viene gestito con rigoroso ordine e disciplina, con l’osservanza d’ogni regola di distanziamento e di protezione.

Eppure manca qualcosa.
Nel mio immaginario m’ero prefigurata questo momento come ammantato d’una certa solennità, una cerimonia quasi, come quella d’un battesimo che fa rinascere a nuova vita.

Avevo immaginato rituali, discorsi, raccomandazioni. E, invece, anche quell’annunciato “colloquio con il medico vaccinatore” che credevo sarebbe stata una vera e propria intervista anamnestica, con tanto di spiegazioni e precisazioni, si riduce a due sole domande, poste con indifferenza, mentre la penna è già pronta a barrare la casella in corrispondenza di un “no”: “Sta attualmente seguendo una terapia farmacologia?” “Ha patologie in atto?”.

Tutto qui.

Qualche firma, una data e l’orario appuntati in un angolo del foglio e poi l’augurio, l’unico – ma forse nemmeno autentico e piuttosto formale - segno di umanità, in mezzo a quella ben rodata catena di montaggio: “Buon vaccino!”

“Che strano augurio”, penso, e la mente va a tutte le aspettative, a tutte le speranze che l’umanità intera ha riposto in quella piccola puntura, in quei pochi ml di una “pozione magica” che salva la vita.

Passo in un’altra sala, dove un’efficiente infermiera, che probabilmente è lì già da qualche ora, in maniera sbrigativa, ripetendo un ritornello che ha già snocciolato chissà quante altre volte, mi dice che dopo la somministrazione dovrò attendere 15 minuti prima d’andar via, registrando eventuali malesseri, e poi passare alla cassa per confermare l’appuntamento per il richiamo, quello che già al momento della prenotazione online l’impeccabile sezione vaccinale del sito della Regione Lazio mi aveva fornito.

Poi mi domanda su quale braccio voglio ricevere la puntura, ed è quello il solo momento di autodeterminazione concesso (oltre a quello della scelta della struttura dove recarmi per ricevere la prestazione, ove avesse avuto ancora posti disponibili) per quella procedura che, mettendo da parte ogni dubbio o riottosità, anche i “no vax non conclamati” finiscono per accettare, consapevoli che, in maniera mai dichiarata né imposta, un non ufficiale “passaporto vaccinale” diventerà d’ora in poi la conditio sine qua con cui si sarà abilitati a tornare ad una qualche parvenza di normalità.

Mi siedo sulla poltrona che l’infermiera mi indica, libero il braccio scelto e glielo offro. Osservo le sue mani solo per il tempo in cui, con gesti esperti, aspirano da una piccola fiala il prezioso liquido dentro una siringa sottilissima appena scartata. Chiudo gli occhi e avverto solo un piccolo pizzico.

Immagino quel siero che si diffonde, la proteina spike che si stacca e raggiunge il suo obiettivo, l’organismo che si allarma e comincia a reagire…

“Potrebbe avere dolore alle ossa o febbre; le basterà prendere una tachipirina. Può andare”.

Ecco fatto. Sono diventata un numero tra quelli che stasera i notiziari riferiranno per dare conto dei progressi algebrici del percorso verso il gregge degli immuni.
Mia madre mi chiama poco dopo. Chiede come sto, poi mi dice che anche lei e papà domani faranno il vaccino.

“Ha chiamato Daniela, il nostro medico di base. Ha detto di andare da lei domani. Ci ha avvisato subito, non appena ha avuto il via libera. È stata molto premurosa.”

Umanità batte inefficienza.

Penso che io nemmeno lo conosco il nome di battesimo del mio medico di famiglia e che un trattamento così “intimo” non l’ho mai ricevuto nemmeno nelle prestazioni private, profumatamente pagate.

Ci sono luoghi che continueranno sempre ad essere in ritardo sulla tabella di marcia dello sviluppo dei servizi e dell’efficienza, che faranno spesso parlare di sé più per le storture che non per i meriti, che saranno invisi e biasimati per malaffare e malagestione.

Ma sono gli stessi luoghi in cui valori come solidarietà, cura e affetto vinceranno sempre sulla freddezza, l’asetticità ed il distacco con cui si paga l’efficienza.

Buon vaccino, Ma’.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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