16 ottobre 2018

Omessa dichiarazione. Il bilancio prova il reato

È possibile compensare solo i crediti IVA risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche

Autore: Paola Mauro
Ai fini del reato di omessa dichiarazione, il superamento della soglia di punibilità può essere accertato dal Giudice penale sulla base sulla determinazione, in sede amministrativa, dell'ammontare dell'imposta dovuta, mediante l'analisi del bilancio societario. Non solo. Al contribuente può essere addebitato il reato d’indebita compensazione se utilizza un credito in precedenza non oggetto di dichiarazione.

A fornire queste indicazioni è la Corte di Cassazione (Sez. 3 Pen.) con la Sentenza n. 43627/2018.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato, che, quale legale rappresentante di Soc. cooperativa è stato condannato, in appello, alla pena di un anno e tre mesi di reclusione perché ritenuto responsabile dei reati di cui agli articoli 51 e 10-quater2 del D.Lgs. n. 74/2000.
  • Ricorrendo per cassazione, la Difesa ha contestato la mancanza di prova in ordine sia al superamento della soglia di punibilità, relativa al reato di omessa dichiarazione, sia all’inesistenza del credito portato in compensazione.

Quanto al reato di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 74/2000, la Difesa ha contestato il metodo di calcolo dell’imposta evasa, per avere la Corte d’Appello di Milano accertato il superamento della soglia di punibilità di 50.000 euro basandosi sulla determinazione dell'ammontare del debito IVA tramite metodo induttivo, mediante l'analisi del bilancio della Cooperativa di cui l’imputato era il legale rappresentante.

Quanto al reato ex art. 10-quater, la Difesa ha dedotto che l'unico dato probatorio richiamato dalla Corte di merito è costituito dalla testimonianza del funzionario dell'Agenzia delle Entrate, il quale ha sostenuto l’inesistenza dei crediti posti in compensazione per il semplice fatto che la Cooperativa non aveva presentato la dichiarazione modello unico SC/2010. Per la Difesa tale ragionamento non può bastare per affermare la responsabilità per il reato contestato perché, per essere inesistente, il credito deve essere il frutto di una vera e propria artificiosa creazione del contribuente. Il che deve emergere incontrovertibilmente da dati assunti nel processo penale, cosa che – a detta della difesa – non sarebbe avvenuta nel caso di specie.
  • Ebbene, per la Suprema Corte i motivi di ricorso non possono essere accolti.

Per quanto riguarda la prima questione posta dal ricorrente - il criterio di calcolo dell'importo dell'IVA non dichiarata - gli Ermellini affermano, in particolare, che nella sentenza impugnata è stato indicato «chiaramente il criterio seguito: sono stati analizzati i ricavi ed i costi ed è stata effettuata quindi un'operazione matematica di calcolo dell'Iva dovuta. Il bilancio è un atto che proviene dallo stesso imputato e la cui validità e coerenza non è stata neanche contestata dalla difesa. La Corte di appello di Milano, pertanto, si è limitata a rispondere al motivo di appello, tenuto conto che l'accertamento è avvenuto non in base a presunzioni ma ad un accertamento induttivo. Rispetto alla sentenza di primo grado ha anche aggiunto che l'accertamento induttivo è stato determinato dalla totale mancanza di collaborazione della cooperativa, la quale non ha esibito la documentazione contabile e fiscale né ha risposto al questionario inviato dall'agenzia delle entrate».

Per quanto riguarda il secondo capo d’imputazione, i Massimi giudici rigettano il motivo di ricorso rilevando che, ai sensi dell'art. 17, D.Lgs. n. 241 del 1997, norma esplicitamente richiamata dall'art. 10-quater, D.Lgs. 74/2000, «i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quelli risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche: sicché correttamente, in base alla deposizione del teste, i crediti portati in compensazione sono stati ritenuti inesistenti, perché non si trattava di crediti iva risultanti dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente. Va altresì osservato che il dato oggettivo che i crediti portati in contestazione non risultassero dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente non è stato contestato né con l'appello né con il ricorso per cassazione».

La Suprema Corte, in definitiva, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’imputato, condannandolo al pagamento delle spese processuali, cui si è aggiunta la somma di 2.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.

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1Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, art. 5 (Omessa dichiarazione) - In vigore dal 22/10/2015
«1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.
1-bis. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d'imposta, quando l'ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila.
2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto».
2Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater (Indebita compensazione) -In vigore dal 22/10/2015
«1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro».
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