30 giugno 2021

L’economia del lavoro nel dopo pandemia

L’anomalia della situazione attuale, con milioni di posti di lavoro a disposizione in tutto il mondo e una drammatica carenza di candidati

Autore: Antonio Gigliotti
È un caso anomalo ed emblematico raccontato questa mattina dalla “CNN”, quello che sta investendo la “P.D. Hook”, azienda che fornisce un terzo dei polli venduti nel Regno Unito, a corto di circa 40 lavoratori agricoli, il doppio del solito. Ma non basta: l’azienda lamenta anche la mancanza di autisti di camion, il che rende difficile trasportare il pollame nelle fabbriche dove vengono tagliati, porzionati e confezionati.

E quando i polli arrivano, c’è anche carenza di personale negli stabilimenti di lavorazione. “È una tempesta perfetta, in un momento in cui tutti vogliono più di tutto”, commentano i vertici dell’azienda.
Problemi che la P.D. Hook non soffre in solitudine: in tutto il mondo le compagnie aeree, i ristoranti e gli alberghi non riescono a riempire i posti di lavoro, con la conseguenza di un rallentamento degli sforzi per capitalizzare la domanda in crescendo dei consumatori. Molti di coloro che sono rimasti a casa quando la pandemia ha colpito non sono più tornati nei cantieri navali o nelle fabbriche dove lavoravano prima, dando un colpo fortissimo alla produzione. Ne piangono le conseguenze anche ristoranti stellati e banche di Wall Street, tutti accomunati dalla stessa lamentela: non riuscire ad assumere abbastanza personale per soddisfare le nuove esigenze.

Negli Stati Uniti, i repubblicani puntano il dito verso l’aumento dei sussidi di disoccupazione, mentre gli economisti di sinistra propongono una soluzione semplice: pagare salari più alti. Nel Regno Unito, sono molte le voci che sollecitano Boris Johnson a rivedere le regole sull’immigrazione post-Brexit, per permettere agli europei di riempire i posti vacanti, mentre i leader di Singapore e Australia stanno tentando di allentare le restrizioni di ingresso nei Paesi per permettere ai lavoratori di tornare.

Ciò che appare sempre più chiaro è che la pandemia ha dato uno shock senza precedenti all’economia globale, trascinando verso la disoccupazione milioni di persone, ma passata la parte più violenta della tempesta, il mercato del lavoro non sarà più lo stesso: i lavoratori con più esperienza sono spesso bloccati nei posti sbagliati, molti altri sono andati in pensione in anticipo o sono scettici sul ritorno al vecchio lavoro.
Anche l’economia che emerge dalla crisi sembra diversa da quella che l'ha preceduta, con una domanda più alta in alcuni settori e decisamente più bassa in altri. Negli Stati Uniti, lo scorso aprile 4 milioni di persone ha perso il proprio posto di lavoro, compresi 649.000 lavoratori al dettaglio. Un recente sondaggio realizzato su più di 16.000 impiegati ha svelato che oltre la metà sta considerando il licenziamento se non venisse loro offerta ampia flessibilità su dove e quando lavorare.

“È un momento di flusso – commenta Erica Groshen, ex commissario del Bureau of Labor Statistics – non è tanto questione di una carenza di manodopera complessiva, quanto piuttosto un periodo di cambiamenti strutturali per l’economia”.
In tutto il mondo, le imprese vivono la stessa preoccupazione: hanno bisogno di lavoratori, e in fretta. Nel solo mese di aprile, negli Stati Uniti si contavano 9,3 milioni di posti di lavoro disponibili, mentre nello stesso periodo nel Regno Unito le offerte di lavoro crescevano del 45%: nel resto d’Europa, secondo il gruppo di ricerca e selezione del personale “IHS Markit” migliaia di aziende soffrono di carenza di personale mentre l’attività continua a crescere al ritmo più veloce degli ultimi 15 anni.

Il problema è particolarmente acuto nel settore del turismo e della ristorazione, con grandi gruppi che stanno cercando rimedio alzando i salari medi nel tentativo di attrarre nuovi dipendenti. Ma non si tratta solo di ristoranti e caffè: il Regno Unito ha bisogno di decine di migliaia di autisti di camion, di macellai e operai nei cantieri.
Ci sono molte ragioni per cui le imprese non riescono a trovare abbastanza lavoratori: la pandemia ha innescato un movimento di massa di persone, che hanno lasciato le grandi città quando i posti di lavoro sono stati tagliati, e i vantaggi della vita urbana sono evaporati. Non tutti sono tornati indietro, molti studenti che in genere sarebbero stati come stagionali in città come New York o Londra sono tornati dalle rispettive famiglie, ma il ritmo irregolare dell’allentamento delle restrizioni ha incoraggiato tanti a trasferirsi in posti nuovi: in Austria o Svizzera, dove i ristoranti hanno riaperto molto prima, il problema si avverte in forma minore.

I limiti al movimento internazionale stanno danneggiando posti come Singapore, dove i lavoratori migranti rappresentano circa il 38% della forza lavoro: il mese scorso, il governo ha riconosciuto che la città stato “non è stata in grado di sostituire adeguatamente coloro che hanno lasciato Singapore” a causa dei controlli di frontiera creati per fermare la diffusione del Covid.
Anche le imprese australiane lamentano carenze, in parte attribuibili ai duri controlli alle frontiere. Secondo l’Australian Bureau of Statistics il 27% delle imprese australiane “sta avendo forti difficoltà a trovare personale adatto”. Dai risultati di un’indagine, il 74% lamenta la mancanza di candidati, e il 32% incolpa la chiusura delle frontiere.

Ma secondo gli esperti almeno una parte della crisi attuale del mondo del lavoro potrebbe rivelarsi temporanea: è facile che i lavoratori stranieri, di fronte alle limitate opportunità di occupazione in patria, tornino verso posti come Singapore quando le restrizioni si allenteranno.
Ma in alcuni luoghi, la carenza di manodopera potrebbe rivelarsi più difficile: secondo le stime dell'Office for National Statistics, alla fine del 2019 almeno 2,3 milioni di cittadini europei lavoravano nel Regno Unito, ma allo scoppio della pandemia molti sono tornati a casa e da allora il governo britannico ha introdotto nuove regole che rendono più difficile oltrepassare la Manica.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha stimato in un recente rapporto che le opportunità di formazione sul posto di lavoro nei paesi membri sono diminuite in media del 18%, e la “Road Haulage Association” del Regno Unito lo scorso anno è stata costretta a cancellare 30.000 esami di guida.

Gli effetti della dislocazione dovrebbero svanire nel tempo, così come altri fattori che contribuiscono alla penuria di lavoratori, ma resta nell’aria una verità inconfutabile: la pandemia ha favorito uno dei più profondi cambiamenti nel mercato del lavoro, e questo sta innescando una riallocazione dei lavoratori nei vari settori che potrebbe avere conseguenze a lungo termine.
In Germania, molti lavoratori del settore turistico hanno scelto di riciclarsi verso attività che hanno meno probabilità di dover chiudere improvvisamente, come i negozi di alimentari e i supermercati, e molti altri hanno trovato lavoro nei grandi hub di smistamento e consegna, cresciuti grazie all’esplosione dello shopping online.

Ma va tenuto in considerazione anche un altro fattore: milioni di persone ormai avanti negli anni sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro: si stima che tra l’agosto 2020 e il gennaio 2021, ben 1,1 milioni di lavoratori americani abbiano scelto la strada del pensionamento anticipato.
Anche prima della pandemia, economisti e politici erano preoccupati per i cambiamenti demografici previsti nei prossimi decenni, con cifre che parlavano di poche forze di lavoro fresche per sostituire i pensionati. Il mese scorso, la Cina ha annunciato che permetterà alle coppie di avere fino a tre figli, estremo tentativo di affrontare il calo delle nascite che a lungo andare potrebbe intaccare la crescita economica.
Il Center for Global Development prevede 95 milioni di persone in età lavorativa in meno in Europa entro il 2050 rispetto al 2015: una cifra che né l’automazione, né l’aumento della presenza femminile o dei lavoratori più anziani potranno colmare.

La soluzione più semplice è l’aumento dei salari, che tuttavia è una componente chiave dell’inflazione, quindi strettamente monitorata dalle banche centrali di tutto il mondo: se i prezzi aumenteranno troppo velocemente, la Banca d’Inghilterra, la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Reserve Bank of Australia, saranno costrette ad aumentare i tassi di interesse.
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